Sempre più bambini istituzionalizzati.
“bambini in istituto” evoca sicuramente nel nostro immaginario sentimenti di pena e di tristezza, l’idea di un posto dove i bambini vivono una certa costrizione, non sono per nulla contenti, al massimo alternano alla malinconia momenti di euforia e di iperattività. Un posto per l’appunto deprimente. Poi cerchiamo di scacciare questi cattivi pensieri, dicendoci che oggi non è più come una volta, che non ci sono più i dormitori, il pane scarso e gli educatori con la bacchetta. Tuttavia non è raro che quando i nostri figli non si comportano bene, un po’ per scherzo un po’ per minaccia di un qualche provvedimento repressivo, agitiamo il fantasma del collegio, per consolare noi e minacciare loro, a significare sia che non ne possiamo più, sia che speriamo che nostro figlio venga a più miti consigli se gli facciamo intravvedere la minaccia di un abbandono da parte nostra.
Sembra allora che il concetto di famiglia e quello di istituto siano antitetici. Ma è davvero così? O solo così? O così semplice? È proprio così che la pensiamo? Per tutti i bambini?
Se portiamo il nostro bagaglio emotivo sul terreno di una riflessione ragionata e allo stesso tempo empaticamente partecipe dei bisogni del bambino, riusciamo a trarre delle interessanti considerazioni.
Innanzi tutto che l’istituto, prima ancora che antitetico alla famiglia, è culturalmente superato. Per culturalmente si intende tutta quella serie di conoscenze e di competenze che una società si fa: sociologiche, antropologiche e psicologiche che ci dicono essere la famiglia il luogo privilegiato di crescita per un bambino. Questo concetto, fatto proprio dalla nostra legislazione, ribadito nella Convenzione internazionale dei diritti del bambino, è un concetto che si fonda sull’osservazione dei bisogni del bambino: solo la famiglia può soddisfarli perché sono bisogni di crescita in termini relazionali.
L’istituto non riesce a fare la stessa proposta proprio per come è concepito e strutturato: il bambino non vi trova un senso di appartenenza, non può costruire delle relazioni privilegiate, e tuttavia, quando costretto a soggiornarvi per tempi dilatati, in attesa di conclusioni dell’iter giudiziario o di improbabili cambiamenti della sua famiglia, sazia il suo bisogno di figure di attaccamento attraverso attaccamenti e investimenti illusori, precari e negati, alle persone che gli vivono accanto, alle immagini dei genitori naturali depositate nella sua mente, finendo così per colludere con quanti non si pongono il problema di quella efficace tutela che si esprime come progetto per il futuro.
A rendere evidente tutto ciò basta confrontare le modalità di accesso all’istituto per come si sono progressivamente affermate.
Un tempo l’istituto era considerato in due modi, a seconda dei privilegi di nascita o di stato sociale:
– il luogo privilegiato della integrazione educativa, culturalmente raffinata, della famiglia di elevato rango e possibilità economica,
– oppure, con sistemazioni molto meno confortevoli, il luogo dei “senza famiglia”, orfani e bastardi, di quelli che, attraverso l’obbligatoria partecipazione a processioni, manifestazioni pubbliche e funerali, dovevano espiare la loro minorità per essere senza famiglia e ringraziare la società che si occupava di loro.
Questi due modi estremamente diversi, di concepire l’istituto, sono oggi culturalmente superati: il primo perché la famiglia funzionante raramente fa delega educativa, non per bambini piccoli, e comunque per tempi brevi; il secondo perché gli orfani trovano subito una famiglia sostitutiva e la categoria dei bastardi è fortunatamente scomparsa.
E tuttavia questi due modi antichi, in dissolvenza, si sovrappongono nel nostro immaginario e danno luogo ad una forma confusa e confondente: quella che l’istituto possa essere, in casi particolari, di numero peraltro elevato, una alternativa alla famiglia, idea per di più anche molto pericolosa perché sottende tutta una serie di concetti adultocentrici che poco hanno a che vedere con i reali bisogni dei bambini.
La famiglia, fonte di modelli relazionali, non può essere sostituita dall’istituto
Se andiamo a vedere la storia dei ventimila e più bambini in istituto, vediamo che per la maggior parte di essi si è pensata la sistemazione in istituto a motivo di un fallimento conclamato e decretato della famiglia:
– il bambino è stato allontanato dalla famiglia,
– la famiglia non è in grado di farcela,
– è in corso un procedimento presso il Tribunale per i minorenni,
– in qualche modo la famiglia, direttamente o indirettamente, ha declamato falliti i suoi compiti.
Nella Banca Dati Minori 1993 della Regione Veneto, su 1006 minori istituzionalizzati, il motivo prevalente sono i problemi relazionali della famiglia, mentre la durata dell’istituzionalizzazione raggruppa la maggior parte dei minori tra meno di un anno e tre anni, per arrivare ad oltre dieci anni.
L’istituto si trasforma così nel luogo di conservazione dei fallimenti familiari, ne diventa il tirannico, geloso e crudele custode, il prolungamento di un malinteso potere della famiglia sul bambino.
Ma se abbiamo all’inizio riflettuto che l’istituto è superato e che non può quindi essere una alternativa alla famiglia, dobbiamo allora molto interrogarci su che senso abbia ricoverare in istituto questi bambini la cui famiglia vive una fase di fallimento, discorso oltretutto operativamente rischioso, perché quando il bambino è in istituto, spesso gli operatori sociali, bombardati da mille altre situazioni, possono ora rivolgere a queste altre il loro pensiero, nella convinzione che per il momento il bambino gode di protezione, e loro possono finalmente pensare a qualcuna delle altre mille questioni.
Così, il bambino che vive in istituto, spesso è dimenticato in istituto: non nel senso che l’operatore non sappia che ci sono delle esigenze per quel bambino, ma non pensa più che si tratti di un problema pressante e tende a rinviarlo.
D’altra parte, la protezione offerta dall’istituto non viene esperita come competitiva dalla famiglia naturale (diversamente dall’affido eterofamiliare che più direttamente richiama l’inadeguatezza dei genitori naturali), si presta a tante giustificazioni, la prima delle quali consiste nell’invocare la propria povertà, e non la propria relazionalità patologica, che invece è questione alla base di tutti i maltrattamenti e le trascuratezze nei confronti dei bambini.
E, paradossalmente, sta proprio qui, nell’assenza di attributi che lo rendano competitivo con la famiglia, la caratteristica di fondo dell’istituto, scelto come alternativo alla famiglia.
La negazione e il misconoscimento delle difficoltà relazionali e del fallimento della famiglia, diviene così, con la sistemazione in istituto dei bambini che sono l’evidenza di tale fallimento, la negazione e il misconoscimento dei loro bisogni di relazione. Tali bisogni, negati e misconosciuti, imploderanno nella psiche dei bambini, con la conseguenza di gravi patologie e devianze.
Tale pesante procedura a danno dei minori, mascherata dietro un garantismo che non può essere che adultocentrato, diviene addirittura aberrante quando si tratta di bambini piccolissimi, dove si riscontra il peggio del misconoscimento e il massimo del danno.
Gli studi sul bambino, sia attraverso le osservazioni dirette che la clinica, hanno ormai portato all’evidenza come sia fondamentale, tanto più il bambino è piccolo, fin da subito, la soddisfazione adeguata dei suoi bisogni, attraverso figure di attaccamento e di riferimento.
Illusoria e criminale allora, oltre che superata, la convinzione che l’istituto possa costituire quel “luogo neutro” dove il neonato possa restare in attesa di una sua sistemazione, in tempi magari definiti “brevi” secondo i parametri degli iter giudiziari, ma assolutamente devastanti, veri e propri “buchi neri” per il bambino che fin dalla nascita, socialmente competente, procede alla costruzione del suo Sé
Il fattore tempo è della massima importanza
Che cosa accade in termini di tempo per un bambino che sta in istituto perché la sua famiglia non ce l’ha fatta ad esprimere una genitorialità corretta nei suoi confronti? Sappiamo che comunque il bambino costruisce degli attaccamenti alle figure surrogate che trova in istituto: si tratta però di persone che, per il turn over, per il fatto che l’accudimento del bambino non è che l’esercizio della loro professionalità e quindi a tempo definito e limitato, non possono soddisfare i bisogni emotivo-affettivi del bambino. Così questi investimenti sono destinati a subire delle delusioni, frequentemente parallele, peraltro, ad una fortissima idealizzazione della famiglia da cui i bambini sono stati allontanati, idealizzazione per di più alimentata dall’allontanamento stesso vissuto come una punizione: «è colpa mia se i miei genitori non ce l’hanno fatta». Quello che tante volte si legge sulla stampa: «il bambino era così attaccato alla sua famiglia…» è proprio il frutto del sentirsi in colpa e di questo bisogno di riempire i vuoti affettivi attraverso una forte idealizzazione dei genitori natura
Il bambino è socialmente competente fin dalla nascita
Noi spesso valutiamo il neonato con parametri cognitivi e sulla base di apprendimenti evolutivi che sono successivi: poiché non comunica verbalmente, diciamo allora che ha capacità relazionali limitate, che non capisce e non ricorda.
E invece il bambino fin dalla nascita ha tutti i potenziali per costruire delle relazioni importanti e ciò che accade quando il bambino è piccolissimo, ciò che sente e percepisce con una raffinatezza incredibile è determinante per lui, fa sì che riconosca con assoluta chiarezza la qualità della disponibilità affettiva di chi si prende cura di lui.
Qualche mese fa, la stampa nazionale ha riportato il caso di un bambino down, nato nell’ospedale di una grande città e rifiutato alla nascita: gli operatori del reparto si sono offerti per tenerlo un mese a testa. Forse questa soluzione consolava gli operatori, ma non era affatto a misura di bambino!
SI dovrebbe oggi poter partire dal presupposto che almeno un reparto di pediatria abbia per scontata la convinzione che il bambino ha invece bisogno di figure privilegiate di attaccamento fin dai primi giorni.
Poiché invece questa convinzione non è per nulla scontata, allora si
opta ancora per l’istituto, proprio partendo dal concetto di attaccamento, ma svuotato dalla sua portante valenza affettiva: il bambino in istituto non si attaccherà e quando si troverà una soluzione, il bambino sarà affettivamente ancora sterile.
Accade invece che il bambino avrà dei vuoti, più o meno prolungati, parzialmente riempiti da frammentarie e illusorie esperienze di attaccamento, esperienze che non costituiranno certo risorsa per le sue vicende successivo.
L’istituto è dunque antitetico al concetto di famiglia, ma non a quello di famiglia comunque, è antitetico al concetto di famiglia sana, capace di relazioni positive, mentre collude con quello di famiglia disfunzionale.
Tutto questo richiede una seria revisione dei nostri parametri culturali.
Tutti conveniamo che sarebbe meglio che un bambino crescesse dove è nato, ma se questo non può accadere, a volte fin dalla nascita, a volte per fatti gravi che pregiudicano la sua crescita, dobbiamo dargli delle alternative alla famiglia naturale, che siano delle alternative a misura di bambino, anche se non sono l’ottimo, debbono tuttavia essere al meglio, così come recita l’art. 3 della Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia: «In tutte le azioni riguardanti bambini, se avviate da istituzioni di assistenza sociale, private o pubbliche, tribunali, attività amministrative o corpi legislativi, i maggiori interessi del bambino/a devono costituire oggetto di primaria considerazione».
Questo ci porta a considerare più seriamente di quanto si sia fatto finora sull’affido eterofamiliare.
Aprendo una breve parentesi, ci chiediamo allora se possa esserci un’eredità lasciata dagli istituti? Parlare in questi termini può essere pericoloso. Meglio chiedersi se possa e debba essere utilizzata una formula diversa dalla organizzazione “famiglia” quando si tratta di minori. Per rispondere a questa domanda, bisogna premettere due osservazioni.
La prima riguardante il fatto che, diversamente da qualsiasi altro istituto che per essere inquadrato deve essere specificato (“Istituto di credito, Istituto tecnico, Istituto di bellezza”), curiosamente quello per l’infanzia non ha bisogno di attributi, è l’istituto per eccellenza, e questo la dice lunga sulla richiesta general generica, non competitiva e non qualificata che all’istituto viene fatta: «Assisti con prudenza, assisti ma non troppo, assisti stando alla larga, assisti senza qualificarti, senza personalizzare», quando invece sappiamo che senza specificazione mirata non c’è intervento con senso costruttivo per il bambino.
E la seconda osservazione è quella riguardante la confusione rischiosa tra il termine protezione e il termine tutela, usati in forma intercambiabile, ma in realtà con una valenza assai diversa, per contenuto e aspetto temporale: la protezione implica l’intervento nell’immediata situazione di sofferenza di un bambino, la tutela comporta la formulazione di un progetto nel tempo.
Ciò premesso, la sola formula di organizzazione, diversa dalla famiglia, che può essere convenientemente utilizzata per i bambini, è quella, depurata dai turn over e imperniata su educatori stabili, realizzata da piccole comunità molto specializzate che accolgono un bambino allontanato da una situazione di grave pregiudizio, lo aiutano a rendersi conto di quello che gli è accaduto, e permettono di fare un lavoro di pensiero per un progetto mirato di tutela, e quindi per tempi brevi e definiti.
È la formula dell’accoglienza qualificata, specializzata spesso attorno al problema dell’abuso, del primo intervento, essendo ormai inconcepibile e inammissibile quella del soggiorno a tempo indeterminato. Oppure è la formula dell’adolescente che, alle problematiche della famiglia d’origine, somma quelle sue proprie di svincolo dal contesto di appartenenza.
Ma non è certo la trasformazione logistica dell’edificio istituto che lo rende adeguato a simili interventi specializzati, anche se questo equivoco modo di procedere è molto diffuso.
Il bambino in istituto può al massimo avere un bell’addestramento che è molto diverso dal buon attaccamento. Mentre l’attaccamento è una relazione soddisfacente con figure di riferimento importanti e stabili in un contesto stabile in grado di fornire senso, direzione, obiettivi sociali alla crescita, l’addestramento, e la storia ci dice quanto pericoloso possa diventare, quando si situa su una trama relazionale frammentata, priva di slancio affettivo e quindi di senso pieno, è quella faccenda in cui uno reprime la sua vita emotiva, impara una serie di manovre e di comportamenti più o meno funzionali a farlo sopravvivere alla meno peggio nell’ambiente in cui si trova, ma quanto poi a pensare alla persona addestrata in termini di compiutezza, di maturità, di soddisfazione delle sue esigenze psicologiche, siamo molto lontani.
La concezione che ha sostenuto nel tempo gli istituti è quella della competenza a fornire stimoli educativi incisivi, forti, atti a costruire dei comportamenti sociali idonei, su mandato:
– della famiglia,
– dello Stato.
E questo è andato avanti per tutto il periodo in cui il concetto di educazione è stato inteso soprattutto come trasmissione di valori precostituiti.
La rivisitazione del concetto di educazione, degna di questo nome solo quando fondata su rapporti positivi, la scoperta della pedagogia nera, la riflessione sull’importanza della relazione, gli approfondimenti sul significato della famiglia oggi, la trasformazione dei ruoli fissi dei genitori all’interno della famiglia in funzioni relazionali scambievoli, portano ad una ormai ineludibile chiarificazione del concetto di istituto, che invece allo stato dei fatti continua a fungere da contenitore senza essere più in grado peraltro di erogare alimento soddisfacente in epoca, quella attuale, in cui ciò che conta non è la trasmissione di valori, ma una funzione relazionale fornita di senso.
Sappiamo che cosa succede ai ragazzi dopo anni di permanenza in istituto in nome del presunto diritto della famiglia d’origine a non essere sostituita: fragili, repressi, immaturi, calano nella realtà la sete di rivincita sulla vita che è stata così avara con loro, con risultati devastanti.
Oggi si fa tanto parlare della famiglia, ma troppo spesso in termini assolutamente parziali, perché astratti. Non si dovrebbe parlare della famiglia in astratto, del diritto della famiglia, quanto dei diritti dei membri della famiglia, tenendo presente che questi diritti si debbono proporre in termini convenientemente gerarchizzati: il diritto del più debole, il bambino, deve essere preso in primaria considerazione rispetto ai diritti dei più forti, gli adulti, che fondano i propri diritti sulla capacità di soddisfare al meglio quelli dei membri deboli.
Perché accade esattamente l’opposto?
Il bambino fin dalla nascita è portatore di diritti allo stesso modo dell’adulto, solo che non può farli valere, bisogna che i genitori li facciano valere per lui. Il diritto del genitore sul bambino non è un diritto di proprietà sul bambino, come purtroppo spesso si vede molti genitori declamare in nome dei legami del sangue. Il legame biologico è il punto di partenza che abilita al meglio il genitore ad esprimere una genitorialità corretta nei confronti di suo figlio, ma è solo il punto di partenza.
L’istituto dunque non è più il luogo della delega da parte della famiglia e non può nemmeno esserlo da parte dello Stato in nome della famiglia, proprio perché la centralità della famiglia e l’esercizio di quella tutela che solo l’organizzazione famiglia può esprimere nella vita del bambino, non ammette deleghe.
E ciò anche in considerazione dell’importanza del fattore tempo. Le lunghe procedure per la definizione dello stato giuridico di un bambino, gli rendono invivibile l’istituto perché gli sottraggono, spesso in maniera irreparabile, la possibilità di rendere narrabile la propria storia.
Ogni persona si costruisce attraverso la propria storia, che deve prima essere narrata, per diventare poi autonarrazione, autobiografia. La narrazione è il racconto che l’adulto di riferimento, nella posizione di testimone privilegiato, restituisce al bambino che ne è il protagonista, via via che cresce, perché ne diventi l’interprete attivo e consapevole. La narrazione, il prima – l’adesso – il poi, è un progetto di senso compiuto, a più tappe, che dà senso alla vita del bambino e permette al bambino, che ne diventa partecipe, attraverso il racconto dell’adulto e la propria personale e sempre più consapevole elaborazione, di sentirsi calato nella propria storia, di sviluppare una passione per la propria vita passata tale da alimentare in modo positivo la propria vita futura.
Ma per aiutare in questo il bambino, bisogna davvero aver molto investito affettivamente su di lui, nelle sue potenzialità e nei suoi desideri.
Così, dopo quei lunghi anni trascorsi in istituto, e le banche dati ci assicurano che purtroppo si tratta di lunghi soggiorni, il bambino perde il senso della propria narrazione e con essa il senso della vita stessa.
Il concetto di famiglia astrattamente espresso e quello di istituto, considerato, contradditoriamente, sia superato che abilitato a far da contenitore di fallimenti familiari, per molti motivi si prestano dunque a indebite sovrapposizioni e sostituzioni, attraverso cui la nostra cultura esprime proposte ambigue.
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