( Reggio Calabria) Venerdì 22 novembre è stata una serata significativa per il pubblico di RTV Canale 14, che ha avuto l’opportunità di assistere a un approfondimento unico durante il programma “Salotto del Venerdì”, trasmesso da Reggio Calabria. Al centro della puntata, il tema della disabilità, affrontato da diverse prospettive grazie agli interventi degli ospiti presenti.
Tra questi, ho avuto l’onore di partecipare e portare la mia voce su un argomento spesso trascurato: il problema degli allontanamenti delle persone con disabilità. Ho voluto evidenziare come, in molti casi, le famiglie con membri disabili affrontino sfide immense, non solo per l’assenza di sostegno adeguato, ma anche per decisioni istituzionali che possono separare i nuclei familiari, invece di supportarli. Ho sottolineato come sia essenziale ripensare il sistema, affinché si creino interventi più umani, rispettosi delle diversità e orientati all’inclusione.Durante il mio intervento, ho avuto anche l’occasione di presentare il mio libro, “Ci sono anch’io: la disabilità è una dimensione della diversità umana”, ( Armando Editore 2023) un’opera che ho scritto con l’avvocato Daniela Vita, con il desiderio di dare voce a chi troppo spesso rimane invisibile nella nostra società. Il libro è strutturato in tre parti principali: una riflessione culturale sulla percezione della disabilità, un’analisi delle sfide sociali e istituzionali, e una sezione più intima, dove racconto esperienze personali e storie reali che hanno lasciato un segno profondo nella mia vita. In particolare, ho parlato di come il libro affronti temi complessi come il pregiudizio sociale, le difficoltà nel mondo del lavoro, il diritto all’istruzione e l’accesso a una vita dignitosa per tutti. Ogni capitolo è arricchito da testimonianze che offrono uno spaccato della realtà vissuta da molte famiglie. Una delle storie che racconto riguarda una madre che ha lottato per anni contro l’assenza di servizi adeguati per suo figlio, solo per trovarsi di fronte alla minaccia di un allontanamento. È una delle tante testimonianze che mostrano quanto sia urgente cambiare prospettiva e politiche.Un altro aspetto che ho voluto approfondire è stato il legame tra disabilità e inclusione scolastica. Durante il mio intervento, ho posto l’accento sull’importanza della scuola come primo luogo di integrazione sociale. Ho raccontato come, troppo spesso, le famiglie si trovino di fronte a un sistema scolastico impreparato ad accogliere bambini con disabilità, che finiscono per essere esclusi o ghettizzati. Ho sottolineato la necessità di investire nella formazione degli insegnanti e nell’abbattimento delle barriere architettoniche, perché una scuola inclusiva è il primo passo verso una società più equa.Ho spiegato che “Ci sono anch’io” non è solo un libro di denuncia, ma anche una proposta per un cambiamento. Ho voluto inserire esempi concreti di inclusione, tratti da realtà che hanno saputo trasformare la disabilità in una risorsa per la comunità. Inoltre, il libro si chiude con un capitolo dedicato alla speranza, perché credo fermamente che il cambiamento sia possibile.La reazione degli altri ospiti e del pubblico è stata estremamente positiva, segno che il messaggio sta arrivando: la disabilità non deve essere relegata a un problema privato o familiare, ma considerata una questione sociale che riguarda tutti. A fine serata, molte persone si sono avvicinate per ringraziarmi, acquistare il libro e condividere le loro storie. Alcuni genitori mi hanno confessato che si sono sentiti compresi e rappresentati per la prima volta. È stato un momento di grande emozione per me.La serata si è conclusa con un invito al dialogo e all’azione: è tempo di lavorare insieme per abbattere le barriere, non solo fisiche ma anche culturali, che spesso isolano le persone con disabilità. È necessario che la disabilità venga riconosciuta come una componente naturale della diversità umana e che il nostro sistema sociale si adatti per accogliere e valorizzare ogni individuo, senza discriminazioni o pregiudizi.Ringrazio il team di RTV Canale 14 e gli organizzatori del “Salotto del Venerdì” per avermi dato questa preziosa opportunità di portare alla luce temi tanto importanti. Spero che questa serata possa essere solo l’inizio di un percorso di consapevolezza e cambiamento.
Il Tribunale per i Minorenni di Caltanissetta ha autorizzato il rientro del piccolo Luca, nome di fantasia, presso l’abitazione dei nonni materni, ponendo fine a un periodo in cui sia lui che la sua mamma erano stati collocati in una casa famiglia. La decisione è il risultato di un lungo percorso di valutazione che ha coinvolto esperti, psicologi e assistenti sociali e che ha avuto come obiettivo principale il benessere del minore e la ricostruzione di un ambiente familiare adeguato. Tuttavia, la vicenda solleva importanti interrogativi sull’efficacia delle politiche di tutela dei minori e sull’urgenza di adottare interventi tempestivi per prevenire situazioni di allontanamento che spesso risultano evitabili. La madre di Luca, nonostante le difficoltà personali, ha sempre mantenuto un legame affettivo forte con il figlio. Questo aspetto, riconosciuto dal Tribunale, avrebbe potuto essere valorizzato sin dall’inizio attraverso un sostegno concreto che evitasse il collocamento della diade in una struttura esterna. I nonni materni, oggi riconosciuti come risorsa preziosa e disponibili ad accogliere Luca nella loro casa, rappresentano una soluzione che avrebbe potuto essere presa in considerazione già in una fase iniziale. La decisione di ricorrere al collocamento in casa famiglia ha avuto un impatto emotivo significativo, non solo sul bambino ma anche sulla madre, e mette in evidenza la necessità di un sistema di supporto più efficace. L’avvocato Miraglia, legale della madre, ha accolto con soddisfazione il provvedimento del Tribunale, ma ha anche invitato a riflettere sull’intero approccio del sistema di welfare nei confronti delle famiglie in difficoltà. “Questa decisione rappresenta un passo importante per Luca e la sua mamma, ma solleva un tema cruciale: se si fosse intervenuti con un supporto adeguato e tempestivo, si sarebbe potuta evitare una separazione lunga e dolorosa”, ha dichiarato. “Le case famiglia e i collocamenti in comunità devono rappresentare l’ultima istanza, da adottare solo quando ogni altra possibilità è stata esaurita. È necessario che il sistema di tutela dei minori si concentri maggiormente sul rafforzamento delle famiglie, offrendo loro strumenti di sostegno per superare le difficoltà senza compromettere i legami fondamentali tra genitori e figli”. Questa vicenda porta a riflettere sul ruolo cruciale delle istituzioni e dei servizi sociali. Il collocamento in casa famiglia, pur giustificato dalla volontà di proteggere il minore, evidenzia i limiti di un sistema che spesso interviene in modo reattivo, piuttosto che preventivo. Investire nella prevenzione significa creare reti di supporto più solide e attivare risorse familiari prima che si giunga a decisioni drastiche. Il potenziamento dei servizi sociali, con personale adeguatamente formato e protocolli operativi chiari, è essenziale per garantire interventi mirati e tempestivi. Una maggiore collaborazione tra istituzioni e famiglie, insieme alla valorizzazione delle figure familiari di supporto, come i nonni in questo caso, potrebbe evitare che molte situazioni si trasformino in separazioni traumatiche e dolorose. Il rientro di Luca presso l’abitazione dei nonni materni non è solo un traguardo per il minore e sua madre, ma rappresenta anche un’opportunità per ripensare le politiche sociali e giudiziarie. Mantenere il bambino all’interno del suo contesto familiare, quando possibile, non è solo un diritto del minore, ma anche un dovere delle istituzioni che devono fare tutto il possibile per garantire stabilità, affetto e continuità nelle relazioni familiari. Come dimostra questa vicenda, un intervento più tempestivo e meno invasivo avrebbe potuto evitare una sofferenza inutile e rafforzare il nucleo familiare fin dall’inizio. Questa vicenda deve servire come monito e spunto per migliorare le pratiche di tutela dei minori. Un sistema che privilegi il sostegno alla famiglia come primo passo, anziché come soluzione tardiva, può prevenire traumi evitabili e garantire un futuro migliore per i bambini e i loro genitori. Il caso di Luca è emblematico di come sia possibile fare di più e meglio, lavorando per un sistema che metta al centro la prevenzione, il rispetto dei legami familiari e il benessere dei minori, evitando scelte drastiche che, come in questo caso, si sarebbero potute prevenire.
(Caltanisetta 15 novembre 2024) Finalmente, dopo un lungo e difficile periodo trascorso in comunità, la mamma e il suo bambino sono tornati a casa. Un passo importante per la loro serenità, dopo tanto dolore e separazione. Il Tribunale per i Minorenni di Caltanissetta ha restituito loro la dignità e la speranza di un futuro insieme, nonostante le difficoltà. La giustizia, pur con le sue complessità, ha dato loro la possibilità di ricominciare.
di Francesco Miraglia,
La morte di Arcangelo Correra, diciottenne ucciso per un colpo di pistola esploso dal cugino, rappresenta una nuova e tragica ferita per Napoli. Non è il primo giovane che, in pochi giorni, perde la vita per un’escalation di violenza, e temo che non sarà l’ultimo, a meno che non decidiamo finalmente di guardare in faccia questa emergenza e di prendere provvedimenti seri e risolutivi. Questa tragedia segue di poche settimane la morte di Emanuele Tufano, un ragazzo di appena 15 anni, colpito durante una sparatoria tra adolescenti, e di Santo Romano, diciannovenne ucciso in una lite esplosa per un motivo banale. Sono tre giovani vite spezzate, in appena diciassette giorni, una sequenza di eventi tragici che interroga la nostra coscienza collettiva e impone una riflessione profonda sul nostro fallimento come società.
In qualità di esperto in diritto penale e minorile, e autore di libri dedicati al disagio giovanile e alla tutela dei minori, tra cui “Bambini prigionieri”, “I malamente” e “Avvocato dei bambini”, sento la necessità di portare alla luce le storie di tanti ragazzi e famiglie che vivono nel silenzio e nell’invisibilità. Lavorando da anni a stretto contatto con situazioni di degrado e di emarginazione, ho visto troppi ragazzi abbandonati a sé stessi, privi di un sistema di supporto, lasciati a convivere con un vuoto educativo e sociale che li rende vulnerabili alla rabbia e alla violenza. Questo vuoto non è altro che il fallimento della nostra società, incapace di ascoltare e di intervenire per offrire alternative reali.
La violenza tra i giovani è un problema che va ben oltre la sicurezza pubblica. Si tratta di un disagio profondo, di una sofferenza che spesso nasce in famiglia, cresce nel degrado sociale e si alimenta della mancanza di opportunità e di speranza. Molti ragazzi vedono nella violenza una risposta naturale, quasi inevitabile, ai propri problemi e frustrazioni. In troppe realtà manca tutto: l’educazione, il supporto psicologico, il senso di appartenenza a una comunità che possa aiutarli a trovare la loro strada.
Mi chiedo se, come comunità, stiamo facendo abbastanza per i nostri giovani. La risposta, purtroppo, è no. Certo, il controllo delle armi è fondamentale: non possiamo ignorare quanto sia semplice per un adolescente mettere le mani su una pistola modificabile, come dimostrato recentemente dal presidente di Asso.gio.ca durante una manifestazione a Napoli, mostrando una pistola scacciacani acquistabile con pochi euro online. Ma la questione delle armi, seppur centrale, è solo una parte del problema. Non possiamo pensare di risolvere tutto con una sorveglianza più intensa o con l’inasprimento delle pene. Si tratta di risposte superficiali, che non arrivano alle radici del problema.
Napoli è una città splendida, viva, piena di potenziale, e vedere i giovani perdersi nella violenza mi spezza il cuore. Ogni volta che un ragazzo muore, perdiamo una parte della nostra comunità, e con lui un futuro che non potrà mai realizzarsi. Ho seguito da vicino realtà difficili e so quanto sia importante investire sulle persone e sui giovani per costruire una comunità solida e sana. I miei libri sono stati un tentativo di far emergere queste storie, di mettere in evidenza quanto siano radicati i problemi e quanto sia necessario un intervento strutturale per spezzare questo circolo vizioso.
L’approccio dev’essere a tutto campo. In primo luogo, occorre investire risorse reali nell’educazione e nel sostegno sociale. Non possiamo pensare che sia solo compito della polizia intervenire su questa crisi: abbiamo bisogno di assistenti sociali, psicologi, educatori e di ambienti protetti per i nostri giovani, dove possano sentirsi ascoltati e sostenuti. È indispensabile che ci sia una volontà politica decisa, perché senza impegno concreto da parte delle istituzioni, i nostri ragazzi continueranno a rimanere invisibili, intrappolati in un mondo di solitudine e di abbandono.
Come ha sottolineato il sindaco di Napoli, Gaetano Manfredi, ciò che si sta facendo non è sufficiente. L’intervento deve essere su più livelli, dalla famiglia alla scuola, dai quartieri fino ai centri di aggregazione giovanile. Non è una questione che si possa risolvere dall’oggi al domani, ma servono iniziative a lungo termine che restituiscano ai giovani la speranza e un senso di appartenenza. Devono poter vedere una prospettiva concreta, un’alternativa alla strada e alla violenza.
Il futuro dei nostri ragazzi è anche il futuro di Napoli. Se continuiamo a perdere giovani a causa della violenza, impoveriamo la nostra città e rischiamo di perdere il suo patrimonio più prezioso. Come esperto e come cittadino, mi sento in dovere di fare tutto il possibile per creare un contesto in cui la violenza non sia più una risposta, in cui i giovani possano crescere in un ambiente sicuro, rispettati e valorizzati. Napoli ha bisogno di loro, ha bisogno della loro energia e della loro creatività, ma dobbiamo fare la nostra parte per proteggerli.
Non possiamo più permettere che i nomi di questi ragazzi diventino solo un elenco di cronaca nera. Le loro storie devono servire a costruire un cambiamento, a scuotere le coscienze e a spingere le istituzioni a fare di più. Per Arcangelo, per Emanuele, per Santo e per tutti gli altri giovani che non ci sono più, impegniamoci finalmente a dare loro una risposta e a costruire una città che sappia ascoltare, proteggere e valorizzare le nuove generazioni.
La Corte d’Appello annulla la sentenza di adottabilità
ROMA (24 ottobre 2024). Sentenza annullata: la tredicenne sinti potrà riavere la sua bimba, che le era stata tolta appena nata per essere dichiarata adottabile. La Corte di Appello di Roma ha accolto il ricorso presentato dalla famiglia della ragazzina, tramite l’avvocato Miraglia: nessuno era stato informato della dichiarazione di adottabilità della piccola e soprattutto alla giovane mamma non è stata offerta la possibilità – prevista per legge – di riconoscere la figlia, una volta raggiunti i 16 anni di età.
«Una bella vittoria – dichiara l’avvocato Miraglia, che annuncia –: abbiamo denunciato l’assistente sociale e il giudice relatore al tribunale di Perugia, auspicando che il gip li rinvii a giudizio, in quanto è ormai chiaro, e sancito anche dalla sentenza d’appello, che hanno palesemente violato la legge».
La vicenda risale al 2023, quando la giovane mamma tredicenne era ancora incinta della sua bambina. Gli assistenti sociali la spediscono a vivere in una casa famiglia fino al momento del parto, avvenuto a maggio, dopo il quale non le viene data la possibilità di stare con la figlioletta se non per una manciata di giorni. Con l’ inganno, fingendo di portarla a fare una visita di controllo, affidano la neonata a una famiglia. Nel frattempo, con una celerità inusuale – 28 giorni appena – il Tribunale per i Minorenni di Roma emana la sentenza di adottabilità della bambina, adducendo un presunto “stato di abbandono” della piccola.
In realtà la neo mamma ha attorno a sé l’intero nucleo familiare che la supporta, ma soprattutto accade qualcosa di contrario ad ogni principio legislativo: in pieno spregio della legge 184/83 alla mamma non viene concessa la possibilità di poter attendere i 16 anni per riconoscere la figlia. E per giunta a nessuno dei familiari è stato comunicato l’avvio del procedimento di adottabilità. La ragazza invece avrebbe dovuto mantenere la bimba con sé in seno alla sua famiglia, fino al compimento di 16 anni e poi diventarne madre a tutti gli effetti.
Sulla base di queste aperte violazioni della legge, all’udienza della Corte d’Appello, svoltasi lo scorso 17 settembre, i giudici hanno accolto il ricorso, dichiarando la nullità della sentenza di adottabilità del Tribunale per i Minorenni di Roma, confermando però il collocamento della bimba presso la famiglia affidataria, per non causarle dei traumi, fintantoché non si compia il processo di graduale avvicinamento della piccola alla madre naturale e possano stare finalmente insieme.
Questa vicenda solleva una questione ancora più ampia: il problema della giustizia non riguarda solo i grandi casi , ma anche le persone comuni, spesso appartenenti alle fasce più deboli della società. In questo caso specifico, i giudici e gli operatori coinvolti sembrano aver agito con una grave negligenza. Se ignoravano le norme, si tratta di una questione di incompetenza, ma se, al contrario, erano pienamente consapevoli delle leggi e hanno scelto deliberatamente di non applicarle, ci troviamo di fronte a un problema ancora più preoccupante. Questo atteggiamento potrebbe addirittura far pensare che tali violazioni siano avvenute perché la vicenda riguarda una famiglia Sinti? È un interrogativo scomodo, ma che merita di essere posto, perché il diritto deve essere uguale per tutti, indipendentemente dall’origine etnica o sociale.
Ci sono storie silenziose che si muovono nelle stanze di case dove ciò che erroneamente viene chiamato amore lascia i segni sulle pareti, nei frantumi degli oggetti scagliati a terra, sulla pelle e negli occhi delle donne, fino a penetrarle in profondità, laddove non si vede. Ci sono storie rumorose, che si muovono nelle stanze di case dove ciò che comunemente si chiama amore urla insulti e fa tremare i vetri. Ci sono storie visibili e invisibili, taciute e nascoste che sanno di vergogna, smarrimento, dolore per il fallimento di una relazione, paura di non essere credute, paura di non essere protette, paura di perdere i propri figli. Sono storie che attraversano gli anni e le generazioni mentre il termine che le accomuna resta immutato: violenza.
La violenza nei confronti delle donne è un fenomeno endemico, presente a tutte le latitudini, tuttavia, gli stereotipi che esistono intorno a questo fenomeno portano spesso a ritenere che si riscontri solo tra le fasce più vulnerabili della popolazione. In realtà, le statistiche dimostrano il contrario: secondo i dati rilevati da ISTAT, in Italia il 31,5% delle donne tra i 16 e i 70 anni ha subito nel corso della propria vita almeno una forma di violenza. Il dato è trasversale a tutte le regioni, le classi socioeconomiche e il livello di istruzione. In effetti, tra le vittime di violenza non vi sono distinzioni di titolo di istruzione o livello socioeconomico, che invece determinano la possibilità di uscire dal circolo della violenza rendendosi indipendenti (Save The Children, 2024).
In particolare, la violenza domestica colpisce nella maggioranza dei casi le donne, e quando queste sono madri anche i loro figli diventano vittime di maltrattamento in quanto testimoni di violenza. Un’indagine del 2021 condotta dall’Agia, Cismai e Terres des Hommes, ha messo in evidenza come il 32,4% dei bambini presi in carico dai servizi sociali assistono alla violenza sulle loro madri, dato che configura la violenza assistita nei confronti dei minorenni in Italia come la seconda forma di maltrattamento dopo la patologia delle cure (Save The Children, 2024).
Secondo uno studio che ha aggregato i dati del 2021 e del 2022 (fino al primo trimestre) la principale violenza subita dalle donne è generalmente di tipo fisico; segue la violenza di natura psicologica, sessuale, e le minacce. Nella maggior parte dei casi le violenze avvengono all’interno della propria abitazione e consistono in ripetuti episodi nel corso dei mesi e degli anni. Secondo i dati raccolti dallo studio, solo in 129 casi di 2.966 la chiamata al numero antiviolenza è seguita a un unico episodio. Del resto, sono anche molti i casi in cui una violenza subita non si traduce in una denuncia formale; nei primi mesi del 2022, ad esempio, meno del 13% ha denunciato. Tra i motivi più frequenti vengono segnalati il non voler compromettere la famiglia e la paura nei confronti del soggetto violento. Va specificato che questi dati vanno letti in relazione alla presenza di figli nel nucleo famigliare (Openpolis, 2022). La casistica più frequente è quella in cui la vittima con figli indica che questi non hanno subito direttamente la violenza, ma hanno assistito a quella perpetrata. Seguono i casi in cui i figli sono vittime e testimoni della violenza nei confronti del proprio genitore. Le conseguenze per questi sono spesso l’inquietudine, l’aggressività, comportamenti adultizzati di accudimento verso i familiari e disturbi del sonno (Openpolis, 2022).
L’evoluzione della normativa italiana in materia di violenza sulle donne prende le mosse dalla ratifica della Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e sulla lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica (legge n. 77 del 2013) (Parlamento Italiano, 2024). In seguito alla ratifica l’Italia ha compiuto una serie di interventi mirati a istituire una strategia integrata per combattere la violenza. Il primo è stato operato dal decreto-legge n.93 del 2013 che ha apportato modifiche in ambito penale e processuale e ha previsto l’attuazione di misure contro la violenza di genere. Il provvedimento più incisivo è la legge n.69 del 2019 (c.d. Codice Rosso) che ha rafforzato le tutele processuali delle vittime di violenza sessuale e domestica e ha introdotto alcuni nuovi reati nel codice penale quali: il delitto di deformazione dell’aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso, il delitto di diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti e quello di costrizione o induzione al matrimonio. ll Codice Rosso ha cercato di rispondere alla necessità di protezione immediata per le vittime, accelerando i tempi di intervento delle autorità e offrendo strumenti legali più incisivi contro i maltrattanti. Tuttavia, nonostante l’importanza di questo provvedimento, resta ancora molto da fare. Infatti, il Codice Rosso ha portato a un aumento delle denunce, ma non sempre queste si traducono in una protezione effettiva per le vittime. Troppo spesso le donne si trovano ad affrontare un sistema giudiziario che, pur dotato di leggi più severe, può risultare inefficace a causa di ritardi burocratici, mancanza di coordinamento tra le istituzioni e una persistente cultura di scetticismo verso le vittime. Ci sono stati numerosi casi in cui le misure previste dal Codice Rosso non sono state applicate con la dovuta celerità, lasciando le vittime esposte a ulteriori rischi. Pertanto, è fondamentale che tutte le parti coinvolte – dalle forze dell’ordine ai giudici, dai servizi sociali agli operatori sanitari – siano adeguatamente formate e sensibilizzate e siano in grado di riconoscere immediatamente i segni della violenza, di intervenire prontamente e di offrire un sostegno continuo e coordinato.
Anche la legge n.134 del 2021 ha previsto un’estensione delle tutele per le vittime di violenza domestica e di genere, mentre la legge n.53 del 2022 ha potenziato la raccolta di dati statistici sulla violenza di genere attraverso un maggiore coordinamento di tutti i soggetti istituzionali coinvolti. Nella legislatura corrente sono state approvate la legge n.168 del 2023 che ha apportato modifiche al fine di rendere più efficaci le misure di prevenzione e contrasto alla violenza sulle donne, la legge n.12 del 2023 che prevede l’istituzione di una Commissione bicamerale d’inchiesta sul femminicidio, e la legge n. 122 del 2023 che obbliga il pubblico ministero di assumere informazioni dalla persona offesa o da chi ha denunciato i fatti di reato entro tre giorni dall’iscrizione della notizia (Parlamento Italiano, 2024).
È indubbio che il sistema di gestione e protezione a favore delle vittime di violenza siano evoluti negli anni al fine di proteggere le vittime, tuttavia, accade che lo stesso sistema generi risultati fallimentari. Molti centri antiviolenza, ad esempio, hanno verificato che nei percorsi legali, sanitari e dei servizi sociali accade spesso che non siano riconosciuti i presupposti della violenza, che si metta in discussione la parola della donna o che le sue scelte di vita vengano giudicate. Queste azioni hanno come risultato quello di trasmettere al maltrattante un senso di impunità, colpevolizzando la donna per la violenza subita. È stato notato, inoltre, che molti operatori istituzionali assumono che entrambi vittima e maltrattante abbiano dei problemi ed elaborano un sistema di indagine e controllo sulla genitorialità, ritenendola discutibile per entrambi. In questo caso vengono attivate pratiche e protocolli di intervento tra istituzioni prima di ascoltare la donna e di invitarla a recarsi presso un centro antiviolenza.
Secondo il CADMI (Casa delle Donne Maltrattate, 2024) la non conoscenza degli effetti che la violenza produce sulle donne induce diversi operatori istituzionali a giudicarle negativamente, a disporre un allontanamento dal loro contesto di vita e a imporre percorsi non autodeterminanti della donna che la fanno sentire in una posizione subalterna che la rende passiva; ossia, altri decidono per lei cosa le serve e cosa deve fare sulla base di presupposti e scelte su cui la donna non ha alcun potere decisionale.
A questo proposito, nel febbraio del 2022 lo Studio Legale Miraglia depositò una querela per falsità ideologica in certificati commessa da persone esercenti un servizio di pubblica necessità, per false dichiarazioni all’autorità giudiziaria, abuso di ufficio, lesioni personali e violenza privata a carico di una donna vissuta in un contesto di vita violento insieme ai suoi due figli. Di fatto, la distorsione della realtà mascherando elementi importanti nei confronti di alcuni soggetti coinvolti ed evidenziando, invece, nei confronti della donna elementi non attinenti al vero, avevano causato l’allontanamento fisico ed emotivo tra la donna e i suoi figli generando situazioni di profonda sofferenza per entrambe le parti.
Questo è uno dei casi limite che sottolinea la necessità per l’apparato istituzionale di promuovere tra i suoi membri l’utilizzo consapevole di uno strumento chiave per la buona riuscita del loro lavoro: l’ascolto.
Ascoltare una donna che ha vissuto violenza domestica significa concederle del tempo e permetterle di raccontare le sue verità, senza interferire. In questa fase l’ascoltatore è un foglio bianco che aspetta di essere scritto dalla voce del narratore.
Ascoltare significa anche leggere la storia del narratore tra le righe, e rintracciare gli indicatori (psicologici, comportamentali, fisici) della persona. Tra gli indicatori psicologici vi sono paura, stress, attacchi di panico, depressione, perdita di autostima, agitazione, auto colpevolizzazione; tra quelli comportamentali troviamo racconti incongruenti relativi alle violenze fisiche subite, chiusura o isolamento sociale; infine, tra gli indicatori fisici vi sono ferite, contusioni, danni permanenti, aborti spontanei e disordini alimentari.
Le donne che hanno vissuto episodi di violenza domestica, abusi e altri tipi di soprusi hanno diritto all’ascolto come parte fondamentale e integrante della presa in carico del loro caso, sia dal punto di vista psicologico che da quello giuridico. È un processo che richiede sensibilità, conoscenza e un approccio multidisciplinare, pertanto, è necessario sensibilizzare la società e soprattutto i professionisti in ambito giuridico e psicologico affinché siano preparati alla pratica dell’ascolto e possano condividere le loro conoscenze ed esperienze al fine di promuovere pratiche più rigorose che siano in linea con i veri interessi delle donne, come di tutti gli individui che hanno subito, o subiscono, violenza. In definitiva, se da un lato esiste un apparato giudiziario che rafforza le capacità di intervento delle forze dell’ordine e inasprisce le pene in supporto alle vittime di violenza, dall’altro questo approccio consolidatosi nel tempo non è sufficiente a limitare efficacemente un fenomeno così strutturale. È imprescindibile, dunque, cambiare il paradigma sociale e culturale in cui è radicato questo fenomeno. Per questo servono strategie a lungo termine e soprattutto interventi formativi in ogni sfera della società. Infatti, solo riconoscendo che il fenomeno della violenza non è imputabile a casi isolati dovuti a situazioni eccezionali di disagio psicologico e sociale, ma è prettamente strutturale si potranno definire pratiche più coerenti che riflettano e proteggano i veri bisogni psicologici e giuridici delle persone che vivono in contesti di vita violenta.
La violenza di genere non è solo un problema sociale, è una ferita aperta nel cuore della nostra umanità, una tragedia che si consuma ogni giorno nelle stanze silenziose di migliaia di case. Come avvocato che ha dedicato la propria vita alla difesa dei diritti delle donne e dei bambini, ho avuto il privilegio e il dolore di assistere in prima linea alla battaglia contro questo flagello. Ogni caso che affronto non è solo un numero nelle statistiche, ma una storia viva di sofferenza, coraggio, e una resistenza che sfida ogni comprensione.
Non dimenticherò mai le lacrime delle madri che ho difeso, il terrore nei loro occhi e la loro determinazione a proteggere i propri figli, anche a costo della propria vita. Queste donne non sono solo vittime, sono eroine, combattenti in una guerra invisibile, costrette a lottare contro i loro aguzzini e contro un sistema che dovrebbe proteggerle ma che troppo spesso le tradisce. Ogni volta che una di queste donne trova il coraggio di alzare la voce, di chiedere aiuto, di dire “basta”, è un atto di straordinario eroismo. Ma è inaccettabile che debbano affrontare questa battaglia da sole, con una società che le guarda con sospetto, le giudica, le condanna a un silenzio forzato.
La mia battaglia contro la violenza di genere è anche una battaglia personale. Ho visto come il sistema può fallire, come le istituzioni possano ignorare o addirittura colpevolizzare chi cerca aiuto. Ho assistito a casi in cui le vittime sono state ulteriormente ferite da chi avrebbe dovuto proteggerle. Come uomo e come avvocato mi sento profondamente oltraggiato da ogni singola storia di violenza che mi viene raccontata e mi sento investito di una missione: quella di combattere per la giustizia, per il riconoscimento dei diritti, per una società in cui nessuna donna debba più vivere nella paura. La mia esperienza mi ha insegnato che la legge, pur essendo uno strumento potente, non è sufficiente da sola. Non basta punire i colpevoli, dobbiamo anche educare, prevenire, sensibilizzare. Dobbiamo insegnare ai nostri figli il rispetto, l’uguaglianza, la dignità di ogni essere umano. Dobbiamo smantellare gli stereotipi di genere, combattere la cultura del possesso e del controllo che alimenta la violenza. Dobbiamo costruire una società in cui le donne possano sentirsi sicure, supportate, credute.
Ogni giorno mi impegno affinché le voci delle donne che difendo vengano ascoltate. Ogni vittoria in tribunale e ogni volta che una donna trova il coraggio di parlare mi dà la forza di continuare, ma so anche che la strada è lunga e piena di ostacoli. Il sistema spesso fallisce, i pregiudizi sono radicati e il cambiamento è lento; tuttavia, la determinazione delle vittime e il loro spirito indomabile mi ispira ogni giorno a non arrendermi. La mia speranza è che, un giorno, non ci sarà più bisogno di combattere questa battaglia, che le donne possano vivere in una società che le protegge e le valorizza. Ma fino a quel giorno, continuerò a lottare al fianco di tutte le donne e i bambini che hanno bisogno di aiuto, giustizia e un futuro migliore.
Infine, un altro aspetto che merita attenzione è la strumentalizzazione delle denunce. Purtroppo, ci sono casi in cui le accuse di violenza vengono utilizzate in modo strumentale per motivi economici o per ottenere l’affidamento dei figli. Questo non solo distorce la realtà e complica ulteriormente la vita delle vere vittime di violenza, ma mina anche la credibilità del sistema giudiziario e il suo obiettivo di protezione.
In conclusione, la lotta contro la violenza di genere richiede più di leggi e pene severe; necessita di un cambiamento radicale nella nostra cultura e mentalità. Ogni storia di violenza è una ferita aperta nella nostra società, un grido di aiuto che non può rimanere inascoltato. Dobbiamo costruire un mondo in cui le donne possano vivere senza paura, in cui ogni voce venga ascoltata e rispettata. Solo con un impegno collettivo possiamo sperare di sanare queste ferite e offrire un futuro sicuro e dignitoso a tutte le donne e ai loro figli. La vera giustizia inizia dall’ascolto e dalla comprensione; solo così potremo trasformare il dolore in speranza e il silenzio in una potente dichiarazione di cambiamento.
Francesco Miraglia
I Malamente
Le nuove marginalità. Ragazzi messi alla prov
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