Il sistema delle case famiglia in Italia
Oggi in Italia ci sono 32.391 bambini che vengono collocati elle casa-famiglie o dati in affido a un’altra famiglia, spesso per cause non del tutto giustificate. La mappa di questi bambini “collocati fuori la propria famigliai” registra:
- Il 14% dei bambini collocati in questi istituti è straniero;
- Sono 15.624 i minorenni collocati in case famiglia;
- Sono 16.767 quelli dati in affido familiare;
- Il 29.3% è il tassi di crescita degli affidi di minori negli ultimi dieci anni;
- È di 2 anni la permanenza media di un bambino in questi orfanotrofi privati;
- Il 50% circa dei bambini usciti da questi “posti” torna nella famiglia d’origine;
- La retta media di un bambino in comunità varia da una Regione all’altra, a seconda anche del tipo di residenza in cui viene collocato il minore. Numerosi esperti concordano su un costo di 200 euro al giorno.
Se si pensa che praticamente non esistono controlli e che nella maggior parte dei casi ci troviamo di fronte a personale impreparato e spesso non idoneo al ruolo di educatore, ne deriva quanto sia importante un netto cambiamento in questo campo e quali responsabilità gravino sui Tribunali dei Minorenni.
A conclusione di questo piccolo dedicato al business sui “bambini rapiti dai giudici”, ci sembra importante presentare una mappa regionale del collocamento dei 32.391 bambini, che sono cosi suddivisi:
– Lombardia 4.244
– Provincia di Trento 355
– Provincia di Bolzano 313
– Veneto 1.673
– F.V. Giulia: 619
– Emilia Romagna 2.367
– Valle D’Aosta 57
– Marche 667
– Piemonte 2.624
– Umbria 502
– Liguria 1.258
– Abruzzo 541
– Toscana 2.171
– Molise 64
– Lazio 3.923
– Campania 2.820
– Sardegna 772
– Basilicata 232
– Sicilia 2.984
– Puglia 3.193
– Calabria 1.012
– TOTALE 32.391
I periodi di permanenza dei minori accolti presentano una differenziazione notevole. Accanto a bambini e ragazzi che sono in accoglienza da pochi giorni, ce ne sono altri che lo sono da anni.
Tra i presenti al 31 dicembre 2010:
- Ø il 9,1% è stato accolto negli ultimi 3 mesi;
- Ø il 23,8% da 3 mesi a 12 mesi esatti;
- Ø il 19% da 12 mesi a 24 mesi;
- Ø il 22% da 24 mesi a 48 mesi esatti;
- Ø il 26% da oltre 48 mesi.
Quasi inversi sono i dati tra i dimessi nel corso del 2010:
- Ø il 28% è stato accolto per meno di 3 mesi;
- Ø il 27% da 3 mesi a 12 mesi esatti;
- Ø il 19% da 12 mesi a 24 mesi esatti;
- Ø il 16% da 24 a 48 mesi esatti;
- Ø il 10% da oltre 48 mesi.
In generale tra i dimessi nel corso del 2010 si riscontra che:
il 34% rientra in famiglia;
il 33% cambia accoglienza;
l’8% fa vita autonoma;
il 7% va in affidamento preadottivo.
A fine 2010 sono presenti 2.844 neo-maggiorenni (18-21 anni), di cui il 36% è straniero.
La presenza straniera sul totale dei bambini e dei ragazzi fuori dalla propria famiglia è cresciuta considerevolmente negli anni passando da poco meno del 10% del 1998-1999 al 22% del 2010. In alcune regioni la loro presenza assume una consistenza particolarmente rilevante: Emilia-Romagna (38%), Toscana (35%), Provincia di Trento (31%), Veneto (31%), Marche (31%).
È inoltre da segnalare come poco meno del 21% del totale degli stranieri – ovvero circa il 4% del totale dei “fuori famiglia” – sia costituito da minori stranieri non accompagnati (o, meglio, adolescenti stranieri migranti “soli”), di età media 11-13 anni, stimabili in 4.558 unità. Essi rappresentano il 4,4% del totale dei bambini e dei ragazzi fuori dalla famiglia e, come già detto, un consistente 22% del totale degli stranieri presenti nei servizi residenziali familiari e socio-educativi e presso le famiglie affidatarie.
Poco meno di 1 bambino su 10 presenta una qualche forma di disabilità certificata. Nel dettaglio:
- Ø il 7% presenta una disabilità psichica;
- Ø poco più del 2% una disabilità plurima;
- Ø poco più dell’1% una disabilità fisica;
- Ø lo 0,4% una disabilità sensoriale.
La distribuzione secondo l’età di inizio dell’accoglienza dei bambini e ragazzi presenti al 31 dicembre 2010 ha un picco nella classe 6-10 anni, mentre la distribuzione dei presenti a fine anno 2010 fotografati alla stessa data presenta un picco in corrispondenza della classe 14-17 come conseguenza diretta delle durate di permanenza in accoglienza.
La Convenzione sui Diritti del fanciullo (ONU, 1989)
La normativa italiana poggia a sua volta le proprie basi su un testo internazionale di fondamentale importanza. Si tratta della Convenzione sui Diritti del fanciullo che è stata adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite a New York il 20 novembre 1989 ed è stata ratificata dall’Italia, diventando di conseguenza esecutiva, con la Legge n. 176 del 27 maggio 1991.
Questo documento basilare affronta il tema dei diritti dei minori e degli strumenti per la loro attuazione da parte di tutti gli Stati sottoscrittori.
Già nel preambolo la Convenzione enuncia l’importanza e il significato della famiglia come unità fondamentale della società per un sano, felice ed equilibrato sviluppo del minore:
“Rammentando che nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo le Nazioni Unite hanno proclamato che l’infanzia ha diritto ad un aiuto e ad un’assistenza particolari,
convinti che la famiglia, unità fondamentale della società ed ambiente naturale per la crescita ed il benessere di tutti i suoi membri ed in particolare dei fanciulli, deve ricevere la protezione e l’assistenza di cui necessita per poter svolgere integralmente il suo ruolo nella collettività,
riconoscendo che il fanciullo, ai fini dello sviluppo armonioso e completo della sua personalità, deve crescere in un ambiente familiare in un clima di felicità, di amore e di comprensione,
in considerazione del fatto che occorre preparare pienamente il fanciullo ad avere una sua vita individuale nella Società, ed educarlo nello spirito degli ideali proclamati nello Statuto delle Nazioni Unite, in particolare in uno spirito di pace, di dignità, di tolleranza, di libertà, di uguaglianza e di solidarietà..”.
Il documento risulta di significativa importanza perché, come già sottolineato, riconosce il minore come soggetto titolare di diritti e dichiara la necessità che i Paesi sottoscrittori dispongano strumenti in loro tutela.
Altro elemento importante è la definizione della famiglia come luogo naturale più idoneo ad accompagnare la crescita del minore assegnando alle istituzioni la responsabilità di garantirne la tutela e di preservare l’esigibilità del diritto di ciascuno a questa.
La legislazione italiana
Secondo quanto sancito dall’art. 4 della Convenzione dei Diritti del fanciullo gli Stati parte hanno dovuto adottare tutti i provvedimenti legislativi, amministrativi e quant’altro, necessari a dare attuazione ai diritti da essa riconosciuti. L’Italia ha emanato una serie di leggi che tutelano i diritti dei minori, tra cui:
Legge 28 agosto 1997, n. 285
Disposizioni per la promozione di diritti e di opportunità per l’infanzia e l’adolescenza
Legge 23 dicembre 1997, n. 451
Istituzione della Commissione parlamentare per l’infanzia e dell’Osservatorio nazionale per l’infanzia
Legge 3 agosto 1998, n. 269
Norme contro lo sfruttamento della prostituzione, della pornografia e del turismo sessuale in danno di minori quali nuove forme di schiavitù
Legge 25 maggio 2000, n. 148
Ratifica ed esecuzione della Convenzione n. 182 relativa alla proibizione del lavoro minorile e alle azioni per la sua eliminazione, nonché della Raccomandazione n. 190 sullo stesso argomento adottata alla Conferenza dell’Organizzazione Generale del Lavoro del 17 giugno 1999, Ginevra
Legge 4 aprile 2001, n. 154
Misure contro la violenza nelle relazioni familiari
Legge 11 marzo 2002, n.46
Ratifica ed esecuzione dei protocolli opzionali alla Convenzione dei Diritti del fanciullo, concernenti la vendita e la prostituzione dei minori, la pornografia rappresentante bambini e il coinvolgimento dei bambini nei conflitti armati, stipulati a New York il 6 settembre 2000
Legge del 20 marzo 2003, n. 77
Ratifica ed esecuzione della Convenzione europea sull’esercizio dei diritti dei fanciulli, stipulata a Strasburgo il 25 gennaio 1996
Legge del 28 marzo 2001, n. 149
Modifiche alla legge 4 maggio 1983, n. 184, recante “Disciplina dell’adozione e dell’affidamento dei minori”, nonché al titolo VIII del libro primo del Codice Civile
Legge del 31 dicembre 1998, n. 476
Ratifica ed esecuzione della Convenzione per la tutela di minori e la cooperazione in materia di adozione internazionale, stipulata a L’Aja il 29 maggio 1993. Modifiche alla legge 4 maggio 1983, n. 184 in tema di adozione di minori stranieri.
La Legge 149/2001 al Titolo 1 “Diritto del minore alla propria famiglia” art. 1 recita:
“Le condizioni di indigenza dei genitori o del genitore esercente la potestà genitoriale non possono essere di ostacolo all’esercizio del diritto del minore alla propria famiglia. A tal fine a favore della famiglia sono disposti interventi di sostegno e di aiuto”. L’articolo prosegue affermando al comma 3:
“Lo Stato, le regioni e gli enti locali, nell’ambito delle proprie competenze, sostengono, con idonei interventi, nel rispetto della loro autonomia e nei limiti delle risorse finanziarie disponibili, i nuclei familiari a rischio al fine di prevenire l’abbandono e di consentire al minore di essere educato nell’ambito della propria famiglia. Essi promuovono altresì iniziative di formazione dell’opinione pubblica sull’affidamento e l’adozione e di sostegno all’attività delle comunità di tipo familiare, organizzano corsi di preparazione ed aggiornamento professionale degli operatori sociali nonché incontri di formazione e preparazione per le famiglie e le persone che intendono avere in affidamento o in adozione minori. I medesimi enti possono stipulare convenzioni con enti o associazioni senza fini di lucro che operano nel campo della tutela dei minori e delle famiglie per la realizzazione delle attività di cui al presente comma”.
La Legge procede per altro in modo molto preciso e stabilisce al Titolo 2 art. 2 lettera l che:
“Il minore temporaneamente privo di un ambiente familiare idoneo, nonostante gli interventi di sostegno e aiuto disposti ai sensi dell’articolo 1, è affidato ad una famiglia, preferibilmente con figli minori, o ad una persona singola, in grado di assicurargli il mantenimento, l’educazione, l’istruzione e le relazioni affettive di cui egli ha bisogno”. Aggiunge inoltre che per i minori di età inferiore ai 6 anni è possibile l’inserimento solo in comunità di tipo familiare.
Ma chi sono questi minori che vengono tolti alle proprie per essere affidati ad estranei?
Si tratta, come si sarà già ben compreso, non di orfani o di bambini abbandonati bensì di figli. Figli con i propri padri e le proprie madri che, una volta tolti alle famiglie d’origine, è come se diventassero “orfani con i genitori in vita”.
Vediamo adesso nel dettaglio i dati sui minori accolti in relazione ai loro genitori, dati il più eclatante dei quali è sicuramente quello che ci dimostra che quasi tutti i bambini (95%!) in affidamento extra-familiare hanno una famiglia o almeno un genitore. Infatti:
- Ø solo l’1% è orfano di entrambi i genitori;
- Ø l’8% è orfano di padre;
- Ø il 5% è orfano di madre;
- Ø un 1% è figlio di genitori ignoti (e ha un decreto di adottabilità o è in attesa di averlo);
- Ø il 4% circa è in una condizione di presunto abbandono;
- Ø tutti gli altri accolti (81%) hanno una propria famiglia seppur in grave difficoltà.
Inoltre il bambino nella propria famiglia non è solo, essendoci quasi sempre fratelli e sorelle:
- Ø il 63% dei minori accolti ha fratelli o sorelle;
- Ø ben il 53% ha 1 o più fratelli o sorelle anch’essi accolti e 1 su 4 proviene da nuclei familiari in cui sono stati allontanati almeno 3 bambini.
La casa-famiglia è una “comunità di tipo familiare con sede nelle civili abitazioni” la cui finalità è l’accoglienza non solo di minori ma anche di disabili, anziani, persone affette da AIDS o con problematiche psico-sociali. Le case-famiglia per minori, in particolare, si occupano (può giovare ripeterlo) dell’accoglienza di questi ultimi “per interventi socio-assistenziali ed educativi integrativi o sostitutivi della famiglia”. Si pongono quindi in alternativa agli orfanotrofi (o istituti) in quanto, a differenza di questi, dovrebbero avere alcune caratteristiche che le renderebbero somiglianti ad una famiglia. In una stessa struttura potrebbero essere accolti anche minori con disagi e difficoltà di diverso tipo.
I tratti di maggiore affinità con la famiglia sono i seguenti:
– presenza di figure parentali (materna e paterna) che la eleggono a loro famiglia, facendone la propria casa a tutti gli effetti;
– numero ridotto di persone accolte, per garantire che i rapporti interpersonali siano quelli di una famiglia.
La casa inoltre deve avere le caratteristiche architettoniche di una comune abitazione familiare, compatibilmente con le norme eventualmente stabilite dalle autorità sanitarie. Deve inoltre essere radicata nel territorio, il che significa che deve usufruire dei servizi locali (negozi, luoghi di svago, istruzione ecc.) e partecipare alla vita sociale della zona.
Ma vediamo nel dettaglio la normativa attuale di riferimento. Le case-famiglia sono regolate dal Decreto 21 maggio 2001 n. 308 della Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento per la Solidarietà Sociale, Regolamento concernente “Requisiti minimi strutturali e organizzativi per l’autorizzazione all’esercizio dei servizi e delle strutture a ciclo residenziale e semiresidenziale, a norma dell’articolo 11 della legge 8 novembre 2000, n. 328”. Il Decreto fu dunque emanato anch’esso, al pari della Legge n. 149 che disciplina l’adizione e l’affidamento dei minori, al tempo del Governo Amato (25.04.2000-11.06.2001) retto dalla coalizione politica: Ulivo-PDCI-UDEUR-INDIPENDENTI e, ancora una volta, fu firmato dal Ministro per la Solidarietà sociale Livia Turco, con il visto del Guardasigilli Piero Fassino.
Esso fu redatto tenendo conto della seguente normativa precedente:
– articolo 17, comma 3, della Legge 28 agosto 1998, n. 400;
– Legge 8 novembre 2000, n. 328, recante “Legge-quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali”;
– in particolare gli articoli 9, comma 1, lettera c), e 11, comma 1, della Legge n. 328 del 2000, che prevedono la fissazione dei requisiti minimi strutturali e organizzativi per l’autorizzazione all’esercizio dei servizi e delle strutture a ciclo residenziale e semiresidenziale;
– articolo 8, comma 3, lettera f), della medesima Legge n. 328 del 2000 che prevede che le regioni, sulla base dei requisiti minimi fissati dallo Stato, definiscano i criteri per l’autorizzazione, l’accreditamento e la vigilanza delle strutture e dei servizi a gestione pubblica o dei soggetti di cui all’articolo 1, commi 4 e 5;
E inoltre:
– sentita la Conferenza unificata di cui all’articolo 8 del Decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281;
– sentiti i Ministri della Sanità e per gli Affari regionali;
– udito il parere della Sezione consultiva per gli atti normativi del Consiglio di Stato, espresso nell’adunanza del 9 aprile 2001;
– vista la comunicazione al Presidente del Consiglio dei Ministri n. DAS/232/UL/749 dell’8 maggio 2001, a norma dell’articolo 17, comma 3, della Legge 23 agosto 1988, n. 400.
Il Decreto elenca prima di tutto le strutture in oggetto che, come specificato nell’art. 7, sono le seguenti:
a) strutture a carattere comunitario
b) strutture a prevalente accoglienza alberghiera
c) strutture protette
d) strutture a ciclo diurno.
Le strutture a carattere comunitario sono caratterizzate da bassa intensità assistenziale, bassa e media complessità personale, priva del necessario supporto familiare o per la quale la permanenza nel nucleo familiare sia temporaneamente o definitivamente contrastante con il piano individualizzato di assistenza.
Le strutture a prevalente accoglienza alberghiera sono caratterizzate da bassa intensità assistenziale, media e alta complessità organizzativa in relazione al numero di persone ospitate, destinate ad accogliere anziani autosufficienti o parzialmente non autosufficienti.
Le strutture protette sono caratterizzate da media intensità assistenziale, media e alta complessità organizzativa, destinate ad accogliere utenza non autosufficiente. Le strutture a ciclo diurno sono caratterizzate da diverso grado di intensità assistenziale in relazione ai bisogni dell’utenza ospitata e possono trovare collocazione all’interno o in collegamento con una delle tipologie di strutture di cui ai commi precedenti.
Oltre ai requisiti indicati agli articoli precedenti, le strutture di cui al presente articolo devono possedere i requisiti indicati nell’allegato A al presente decreto quale parte integrante.
Nel loro complesso tali strutture, come previsto dall’art. 2 del Decreto, sono rivolte a:
a) minori per interventi socio-assistenziali ed educativi integrativi o sostitutivi della famiglia;
b) disabili per interventi socio-assistenziali o socio-sanitari finalizzati al mantenimento e al recupero dei livelli di autonomia della persona e al sostegno della famiglia;
c) anziani per interventi socio-assistenziali o socio-sanitari, finalizzati al mantenimento e al recupero delle residue capacità di autonomia della persona e al sostegno della famiglia;
d) persone affette da AIDS che necessitano di assistenza continua e risultano prive del necessario supporto familiare o per le quali la permanenza nel nucleo familiare sia temporaneamente o definitivamente impossibile o contrastante con il progetto individuale;
e) persone con problematiche psico-sociali che necessitano di assistenza continua e risultano prive del necessario supporto familiare o per le quali la permanenza nel nucleo familiare sia temporaneamente o definitivamente impossibile o contrastante con il progetto individuale.
Oggetto e finalità del Decreto è quindi quello – previsto all’articolo 1comma 1 – di fissare “i requisiti minimi strutturali e organizzativi per l’autorizzazione all’esercizio” di tali strutture e dei servizi da loro offerti.
Per le comunità familiari con sede nelle civili abitazioni (le cosiddette “case-famiglia”) il Decreto prevede inoltre dei “requisiti specifici”. Le case-famiglia necessitano dunque, ai sensi di legge, di una “doppia garanzia”: quella di base, comune a tutte le strutture, e quella specifica, riferita ad esse soltanto. Esiste, in sintesi, un sistema di “doppia tutela” degli utenti. Ciò significa che la legge era perfettamente consapevole che fosse indispensabile, di conseguenza, anche un “doppio controllo”, essendo “doppi” i rischi e i danni in cui sarebbero potuti incorrere gli utilizzatori di servizi e strutture di casa-famiglia
Ma chi è, nel concreto, che deve verificare ed eventualmente integrare i requisiti minimi fissati dalla legge e i requisiti specifici appositamente previsti? Chi è, in poche parole, che deve esercitare codesta “doppia tutela”, assumendo la posizione giuridica di “doppia garanzia”?
Sono le Regioni. Lo specifica il c. 2 dell’art. 2: “Ai sensi dell’articolo 11, comma 2, della legge n. 328 del 2000, le regioni recepiscono e integrano, in relazione alle esigenze locali, i requisiti minimi fissati dal presente decreto, individuando, se del caso, le condizioni in base alle quali le strutture sono considerate di nuova istituzione e le modalità e i termini entro cui prevedere, anche in regime di deroga, l’adeguamento ai requisiti per le strutture già operanti”.
Sono quindi le singole Regioni che – previa verifica dei requisiti minimi fissati dalla legge nazionale – devono controllare di propria iniziativa e sotto la propria responsabilità le case-famiglia già esistenti e autorizzare l’eventuale apertura delle nuove. Le case-famiglia per minori, infatti, devono soddisfare anche requisiti organizzativi, in questo caso non “standard” ma stabiliti dalle singole Regioni di appartenenza.
Ciò viene ulteriormente specificato negli artt. 3 e 4. Nell’art. 3 (“Strutture di tipo familiare e comunità di accoglienza di minori”) si precisa che “le comunità di tipo familiare (…) accolgono fino ad un massimo di sei utenti (…) minori o adolescenti (…)” e “devono possedere i requisiti strutturali previsti per gli alloggi destinati a civile abitazione”. Lo stesso art. 3 precisa però che “per le comunità che accolgono minori, gli specifici requisiti organizzativi, adeguati alle necessità educativo-assistenziali dei bambini e degli adolescenti, sono stabiliti dalle Regioni”. E, fra i criteri organizzativi, le Regioni possono stabilire anche accorpamenti tra più comunità.
È proprio vero, però, che sono le Regioni a verificare ogni singola casa-famiglia? Niente affatto… perché a verificare, a decidere, ad autorizzare sono i Comuni.
Avv. Francesco Miraglia
No Comments