Il 15 e 16 novembre 2024, Francesco Miraglia, avvocato del Foro di Madrid, parteciperà come relatore alla VI edizione del convegno internazionale “Sicurezza Pubblica e la Necessità di un Alto Capitale Sociale” che si terrà ad Arad in Romania e che si conferma un appuntamento centrale per discutere le sfide della sicurezza pubblica e della protezione dei diritti umani su scala globale. Questo evento è organizzato dal Consiglio della Contea di Arad con il supporto di rinomate istituzioni accademiche e giuridiche, tra cui l’Università “Aurel Vlaicu” di Arad e l’Accademia Rumena delle Scienze Giuridiche, e si rivolge a professionisti e accademici impegnati nel campo del diritto, della criminologia e delle scienze sociali,
Francesco Miraglia, esperto in diritto penale e in difesa dei diritti umani, porterà al convegno l’esperienza e la visione del Foro di Madrid, arricchendo la discussione con una prospettiva internazionale e multidisciplinare. Questo convegno è una piattaforma di confronto tra giuristi, accademici e rappresentanti delle forze dell’ordine provenienti da tutta Europa, un’occasione preziosa per esplorare insieme il ruolo della legge nella tutela della dignità umana, nella difesa delle persone vulnerabili e nella costruzione di un capitale sociale solido e inclusivo, elemento chiave per una sicurezza pubblica duratura e giusta.
Nel panel “Protezione della Personalità Umana Attraverso Mezzi Penali”, di cui Miraglia sarà protagonista, saranno analizzate questioni cruciali come la lotta alla tratta di esseri umani, lo sfruttamento delle persone vulnerabili e i crimini contro la libertà sessuale dei minori. La discussione sul capitale sociale come fondamento della sicurezza pubblica esplorerà il legame tra fiducia e coesione sociale e come il rispetto reciproco tra cittadini, istituzioni e forze dell’ordine possa garantire una protezione efficace e una società più sicura. Miraglia, con la sua consolidata esperienza internazionale, offrirà il suo contributo all’analisi di come le normative giuridiche possano rispondere a queste sfide, evidenziando il ruolo cruciale di una legislazione aggiornata e rigorosa.
In qualità di rappresentante del Foro di Madrid, l’avvocato Francesco Miraglia parteciperà a una serie di discussioni che toccheranno vari ambiti. Tra i temi principali ci sarà la necessità di norme più forti per contrastare la tratta e lo sfruttamento di persone vulnerabili, un fenomeno purtroppo diffuso che richiede risposte coordinate a livello internazionale. Miraglia discuterà inoltre dell’importanza della tutela della dignità umana nel contesto processuale, un tema fondamentale affinché giustizia e rispetto dei diritti fondamentali procedano di pari passo anche nel sistema penale. Un’altra tematica che Miraglia affronterà riguarda i crimini contro l’integrità e la libertà sessuale dei minori, un argomento delicato che richiede norme stringenti e risposte tempestive e adeguate da parte delle istituzioni.
L’invito all’avvocato Francesco Miraglia del Foro di Madrid a partecipare come relatore a questo evento di respiro internazionale è un riconoscimento del suo valore professionale e della sua autorevolezza in materia di diritto penale e tutela dei diritti umani. Miraglia si dice onorato di essere stato invitato in qualità di rappresentante del Foro di Madrid, e di poter contribuire alla riflessione globale su temi tanto cruciali. “È un privilegio per me essere qui per sostenere l’importanza di un approccio internazionale nella tutela dei diritti fondamentali, promuovendo una giustizia più inclusiva e una società più sicura,” afferma Miraglia.
L’evento, che si svolgerà presso il Consiglio della Contea di Arad, vedrà la partecipazione di rappresentanti del mondo accademico e delle istituzioni, con una serie di incontri e panel che rappresentano una vera e propria vetrina di idee, esperienze e proposte innovative per affrontare le sfide contemporanee legate alla sicurezza e alla protezione della persona. Il contributo di Francesco Miraglia, avvocato del Foro di Madrid, è atteso con grande interesse, in quanto offrirà un prezioso punto di vista per rafforzare la coesione tra i Paesi europei e garantire un ambiente giuridico in cui i diritti umani siano realmente protetti.
Francesco Miraglia è stato insignito del prestigioso Premio Athena d’Oro durante una cerimonia di alto valore culturale e professionale che si è svolta l’8 novembre presso la storica cornice di Palazzo Valentini a Roma, in una sala gremita e arricchita dalla presenza di illustri personalità del mondo della cultura e della professione. Questo riconoscimento, conferito dalla Fondazione Area Cultura ETS, si presenta come un omaggio non solo al talento, ma anche all’impegno di Miraglia, che da anni si distingue come professionista e scrittore impegnato nella difesa dei diritti e nella promozione di valori universali come la giustizia e la dignità umana.
Il Premio Athena d’Oro celebra quelle figure che, attraverso il proprio operato, hanno contribuito a plasmare positivamente il tessuto culturale e sociale del Paese. Miraglia, noto per la sua dedizione e per la sua integrità professionale, ha saputo affrontare questioni complesse, spesso legate alla sfera dei diritti umani e delle libertà fondamentali, con una visione chiara e un profondo senso di responsabilità. Nelle sue opere e nel suo lavoro come professionista, Miraglia ha sempre posto in primo piano la persona e il valore della giustizia, consapevole che ogni caso rappresenta non solo un episodio di vita, ma una possibilità di contribuire a una società più equa. Ricevere questo premio, ha dichiarato Miraglia, rappresenta per lui un riconoscimento che va oltre la dimensione personale: è un omaggio alla giustizia e a chi si impegna quotidianamente per difenderla, e un incoraggiamento a continuare su questo percorso per dare voce a chi spesso non ne ha.
Ad aprire la cerimonia è stato l’Onorevole Fabrizio Santori, Segretario Generale dell’Assemblea Capitolina, il quale ha evidenziato l’importanza di sostenere quelle figure come Miraglia, che rappresentano l’eccellenza italiana e che, con il proprio lavoro e la propria visione, contribuiscono a promuovere i valori del nostro Paese nel mondo. L’evento è stato organizzato dalla Fondazione Area Cultura ETS, presieduta dalla dottoressa Angelica Loredana Anton, che ha ribadito nel suo discorso come la cultura rappresenti l’essenza stessa della società e ha ringraziato tutti i premiati per il loro ruolo nel rafforzare e ampliare gli orizzonti culturali e sociali dell’Italia. Miraglia, con il suo operato, incarna appieno questi valori, mostrando come l’unione tra giustizia e cultura possa davvero essere la chiave per una società più coesa e giusta.
Ci sono storie silenziose che si muovono nelle stanze di case dove ciò che erroneamente viene chiamato amore lascia i segni sulle pareti, nei frantumi degli oggetti scagliati a terra, sulla pelle e negli occhi delle donne, fino a penetrarle in profondità, laddove non si vede. Ci sono storie rumorose, che si muovono nelle stanze di case dove ciò che comunemente si chiama amore urla insulti e fa tremare i vetri. Ci sono storie visibili e invisibili, taciute e nascoste che sanno di vergogna, smarrimento, dolore per il fallimento di una relazione, paura di non essere credute, paura di non essere protette, paura di perdere i propri figli. Sono storie che attraversano gli anni e le generazioni mentre il termine che le accomuna resta immutato: violenza.
La violenza nei confronti delle donne è un fenomeno endemico, presente a tutte le latitudini, tuttavia, gli stereotipi che esistono intorno a questo fenomeno portano spesso a ritenere che si riscontri solo tra le fasce più vulnerabili della popolazione. In realtà, le statistiche dimostrano il contrario: secondo i dati rilevati da ISTAT, in Italia il 31,5% delle donne tra i 16 e i 70 anni ha subito nel corso della propria vita almeno una forma di violenza. Il dato è trasversale a tutte le regioni, le classi socioeconomiche e il livello di istruzione. In effetti, tra le vittime di violenza non vi sono distinzioni di titolo di istruzione o livello socioeconomico, che invece determinano la possibilità di uscire dal circolo della violenza rendendosi indipendenti (Save The Children, 2024).
In particolare, la violenza domestica colpisce nella maggioranza dei casi le donne, e quando queste sono madri anche i loro figli diventano vittime di maltrattamento in quanto testimoni di violenza. Un’indagine del 2021 condotta dall’Agia, Cismai e Terres des Hommes, ha messo in evidenza come il 32,4% dei bambini presi in carico dai servizi sociali assistono alla violenza sulle loro madri, dato che configura la violenza assistita nei confronti dei minorenni in Italia come la seconda forma di maltrattamento dopo la patologia delle cure (Save The Children, 2024).
Secondo uno studio che ha aggregato i dati del 2021 e del 2022 (fino al primo trimestre) la principale violenza subita dalle donne è generalmente di tipo fisico; segue la violenza di natura psicologica, sessuale, e le minacce. Nella maggior parte dei casi le violenze avvengono all’interno della propria abitazione e consistono in ripetuti episodi nel corso dei mesi e degli anni. Secondo i dati raccolti dallo studio, solo in 129 casi di 2.966 la chiamata al numero antiviolenza è seguita a un unico episodio. Del resto, sono anche molti i casi in cui una violenza subita non si traduce in una denuncia formale; nei primi mesi del 2022, ad esempio, meno del 13% ha denunciato. Tra i motivi più frequenti vengono segnalati il non voler compromettere la famiglia e la paura nei confronti del soggetto violento. Va specificato che questi dati vanno letti in relazione alla presenza di figli nel nucleo famigliare (Openpolis, 2022). La casistica più frequente è quella in cui la vittima con figli indica che questi non hanno subito direttamente la violenza, ma hanno assistito a quella perpetrata. Seguono i casi in cui i figli sono vittime e testimoni della violenza nei confronti del proprio genitore. Le conseguenze per questi sono spesso l’inquietudine, l’aggressività, comportamenti adultizzati di accudimento verso i familiari e disturbi del sonno (Openpolis, 2022).
L’evoluzione della normativa italiana in materia di violenza sulle donne prende le mosse dalla ratifica della Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e sulla lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica (legge n. 77 del 2013) (Parlamento Italiano, 2024). In seguito alla ratifica l’Italia ha compiuto una serie di interventi mirati a istituire una strategia integrata per combattere la violenza. Il primo è stato operato dal decreto-legge n.93 del 2013 che ha apportato modifiche in ambito penale e processuale e ha previsto l’attuazione di misure contro la violenza di genere. Il provvedimento più incisivo è la legge n.69 del 2019 (c.d. Codice Rosso) che ha rafforzato le tutele processuali delle vittime di violenza sessuale e domestica e ha introdotto alcuni nuovi reati nel codice penale quali: il delitto di deformazione dell’aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso, il delitto di diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti e quello di costrizione o induzione al matrimonio. ll Codice Rosso ha cercato di rispondere alla necessità di protezione immediata per le vittime, accelerando i tempi di intervento delle autorità e offrendo strumenti legali più incisivi contro i maltrattanti. Tuttavia, nonostante l’importanza di questo provvedimento, resta ancora molto da fare. Infatti, il Codice Rosso ha portato a un aumento delle denunce, ma non sempre queste si traducono in una protezione effettiva per le vittime. Troppo spesso le donne si trovano ad affrontare un sistema giudiziario che, pur dotato di leggi più severe, può risultare inefficace a causa di ritardi burocratici, mancanza di coordinamento tra le istituzioni e una persistente cultura di scetticismo verso le vittime. Ci sono stati numerosi casi in cui le misure previste dal Codice Rosso non sono state applicate con la dovuta celerità, lasciando le vittime esposte a ulteriori rischi. Pertanto, è fondamentale che tutte le parti coinvolte – dalle forze dell’ordine ai giudici, dai servizi sociali agli operatori sanitari – siano adeguatamente formate e sensibilizzate e siano in grado di riconoscere immediatamente i segni della violenza, di intervenire prontamente e di offrire un sostegno continuo e coordinato.
Anche la legge n.134 del 2021 ha previsto un’estensione delle tutele per le vittime di violenza domestica e di genere, mentre la legge n.53 del 2022 ha potenziato la raccolta di dati statistici sulla violenza di genere attraverso un maggiore coordinamento di tutti i soggetti istituzionali coinvolti. Nella legislatura corrente sono state approvate la legge n.168 del 2023 che ha apportato modifiche al fine di rendere più efficaci le misure di prevenzione e contrasto alla violenza sulle donne, la legge n.12 del 2023 che prevede l’istituzione di una Commissione bicamerale d’inchiesta sul femminicidio, e la legge n. 122 del 2023 che obbliga il pubblico ministero di assumere informazioni dalla persona offesa o da chi ha denunciato i fatti di reato entro tre giorni dall’iscrizione della notizia (Parlamento Italiano, 2024).
È indubbio che il sistema di gestione e protezione a favore delle vittime di violenza siano evoluti negli anni al fine di proteggere le vittime, tuttavia, accade che lo stesso sistema generi risultati fallimentari. Molti centri antiviolenza, ad esempio, hanno verificato che nei percorsi legali, sanitari e dei servizi sociali accade spesso che non siano riconosciuti i presupposti della violenza, che si metta in discussione la parola della donna o che le sue scelte di vita vengano giudicate. Queste azioni hanno come risultato quello di trasmettere al maltrattante un senso di impunità, colpevolizzando la donna per la violenza subita. È stato notato, inoltre, che molti operatori istituzionali assumono che entrambi vittima e maltrattante abbiano dei problemi ed elaborano un sistema di indagine e controllo sulla genitorialità, ritenendola discutibile per entrambi. In questo caso vengono attivate pratiche e protocolli di intervento tra istituzioni prima di ascoltare la donna e di invitarla a recarsi presso un centro antiviolenza.
Secondo il CADMI (Casa delle Donne Maltrattate, 2024) la non conoscenza degli effetti che la violenza produce sulle donne induce diversi operatori istituzionali a giudicarle negativamente, a disporre un allontanamento dal loro contesto di vita e a imporre percorsi non autodeterminanti della donna che la fanno sentire in una posizione subalterna che la rende passiva; ossia, altri decidono per lei cosa le serve e cosa deve fare sulla base di presupposti e scelte su cui la donna non ha alcun potere decisionale.
A questo proposito, nel febbraio del 2022 lo Studio Legale Miraglia depositò una querela per falsità ideologica in certificati commessa da persone esercenti un servizio di pubblica necessità, per false dichiarazioni all’autorità giudiziaria, abuso di ufficio, lesioni personali e violenza privata a carico di una donna vissuta in un contesto di vita violento insieme ai suoi due figli. Di fatto, la distorsione della realtà mascherando elementi importanti nei confronti di alcuni soggetti coinvolti ed evidenziando, invece, nei confronti della donna elementi non attinenti al vero, avevano causato l’allontanamento fisico ed emotivo tra la donna e i suoi figli generando situazioni di profonda sofferenza per entrambe le parti.
Questo è uno dei casi limite che sottolinea la necessità per l’apparato istituzionale di promuovere tra i suoi membri l’utilizzo consapevole di uno strumento chiave per la buona riuscita del loro lavoro: l’ascolto.
Ascoltare una donna che ha vissuto violenza domestica significa concederle del tempo e permetterle di raccontare le sue verità, senza interferire. In questa fase l’ascoltatore è un foglio bianco che aspetta di essere scritto dalla voce del narratore.
Ascoltare significa anche leggere la storia del narratore tra le righe, e rintracciare gli indicatori (psicologici, comportamentali, fisici) della persona. Tra gli indicatori psicologici vi sono paura, stress, attacchi di panico, depressione, perdita di autostima, agitazione, auto colpevolizzazione; tra quelli comportamentali troviamo racconti incongruenti relativi alle violenze fisiche subite, chiusura o isolamento sociale; infine, tra gli indicatori fisici vi sono ferite, contusioni, danni permanenti, aborti spontanei e disordini alimentari.
Le donne che hanno vissuto episodi di violenza domestica, abusi e altri tipi di soprusi hanno diritto all’ascolto come parte fondamentale e integrante della presa in carico del loro caso, sia dal punto di vista psicologico che da quello giuridico. È un processo che richiede sensibilità, conoscenza e un approccio multidisciplinare, pertanto, è necessario sensibilizzare la società e soprattutto i professionisti in ambito giuridico e psicologico affinché siano preparati alla pratica dell’ascolto e possano condividere le loro conoscenze ed esperienze al fine di promuovere pratiche più rigorose che siano in linea con i veri interessi delle donne, come di tutti gli individui che hanno subito, o subiscono, violenza. In definitiva, se da un lato esiste un apparato giudiziario che rafforza le capacità di intervento delle forze dell’ordine e inasprisce le pene in supporto alle vittime di violenza, dall’altro questo approccio consolidatosi nel tempo non è sufficiente a limitare efficacemente un fenomeno così strutturale. È imprescindibile, dunque, cambiare il paradigma sociale e culturale in cui è radicato questo fenomeno. Per questo servono strategie a lungo termine e soprattutto interventi formativi in ogni sfera della società. Infatti, solo riconoscendo che il fenomeno della violenza non è imputabile a casi isolati dovuti a situazioni eccezionali di disagio psicologico e sociale, ma è prettamente strutturale si potranno definire pratiche più coerenti che riflettano e proteggano i veri bisogni psicologici e giuridici delle persone che vivono in contesti di vita violenta.
La violenza di genere non è solo un problema sociale, è una ferita aperta nel cuore della nostra umanità, una tragedia che si consuma ogni giorno nelle stanze silenziose di migliaia di case. Come avvocato che ha dedicato la propria vita alla difesa dei diritti delle donne e dei bambini, ho avuto il privilegio e il dolore di assistere in prima linea alla battaglia contro questo flagello. Ogni caso che affronto non è solo un numero nelle statistiche, ma una storia viva di sofferenza, coraggio, e una resistenza che sfida ogni comprensione.
Non dimenticherò mai le lacrime delle madri che ho difeso, il terrore nei loro occhi e la loro determinazione a proteggere i propri figli, anche a costo della propria vita. Queste donne non sono solo vittime, sono eroine, combattenti in una guerra invisibile, costrette a lottare contro i loro aguzzini e contro un sistema che dovrebbe proteggerle ma che troppo spesso le tradisce. Ogni volta che una di queste donne trova il coraggio di alzare la voce, di chiedere aiuto, di dire “basta”, è un atto di straordinario eroismo. Ma è inaccettabile che debbano affrontare questa battaglia da sole, con una società che le guarda con sospetto, le giudica, le condanna a un silenzio forzato.
La mia battaglia contro la violenza di genere è anche una battaglia personale. Ho visto come il sistema può fallire, come le istituzioni possano ignorare o addirittura colpevolizzare chi cerca aiuto. Ho assistito a casi in cui le vittime sono state ulteriormente ferite da chi avrebbe dovuto proteggerle. Come uomo e come avvocato mi sento profondamente oltraggiato da ogni singola storia di violenza che mi viene raccontata e mi sento investito di una missione: quella di combattere per la giustizia, per il riconoscimento dei diritti, per una società in cui nessuna donna debba più vivere nella paura. La mia esperienza mi ha insegnato che la legge, pur essendo uno strumento potente, non è sufficiente da sola. Non basta punire i colpevoli, dobbiamo anche educare, prevenire, sensibilizzare. Dobbiamo insegnare ai nostri figli il rispetto, l’uguaglianza, la dignità di ogni essere umano. Dobbiamo smantellare gli stereotipi di genere, combattere la cultura del possesso e del controllo che alimenta la violenza. Dobbiamo costruire una società in cui le donne possano sentirsi sicure, supportate, credute.
Ogni giorno mi impegno affinché le voci delle donne che difendo vengano ascoltate. Ogni vittoria in tribunale e ogni volta che una donna trova il coraggio di parlare mi dà la forza di continuare, ma so anche che la strada è lunga e piena di ostacoli. Il sistema spesso fallisce, i pregiudizi sono radicati e il cambiamento è lento; tuttavia, la determinazione delle vittime e il loro spirito indomabile mi ispira ogni giorno a non arrendermi. La mia speranza è che, un giorno, non ci sarà più bisogno di combattere questa battaglia, che le donne possano vivere in una società che le protegge e le valorizza. Ma fino a quel giorno, continuerò a lottare al fianco di tutte le donne e i bambini che hanno bisogno di aiuto, giustizia e un futuro migliore.
Infine, un altro aspetto che merita attenzione è la strumentalizzazione delle denunce. Purtroppo, ci sono casi in cui le accuse di violenza vengono utilizzate in modo strumentale per motivi economici o per ottenere l’affidamento dei figli. Questo non solo distorce la realtà e complica ulteriormente la vita delle vere vittime di violenza, ma mina anche la credibilità del sistema giudiziario e il suo obiettivo di protezione.
In conclusione, la lotta contro la violenza di genere richiede più di leggi e pene severe; necessita di un cambiamento radicale nella nostra cultura e mentalità. Ogni storia di violenza è una ferita aperta nella nostra società, un grido di aiuto che non può rimanere inascoltato. Dobbiamo costruire un mondo in cui le donne possano vivere senza paura, in cui ogni voce venga ascoltata e rispettata. Solo con un impegno collettivo possiamo sperare di sanare queste ferite e offrire un futuro sicuro e dignitoso a tutte le donne e ai loro figli. La vera giustizia inizia dall’ascolto e dalla comprensione; solo così potremo trasformare il dolore in speranza e il silenzio in una potente dichiarazione di cambiamento.
Francesco Miraglia
La Legge 206/2021, più nota come riforma Cartabia, ha rivoluzionato il processo di famiglia cercando di modellare gli istituti processuali alle problematiche concrete determinate dalla crisi di un nucleo familiare. Tra i problemi più evidenti nella fase post-separazione, ad esempio, c’è la difficoltà degli ex-coniugi di concordare orari e luoghi delle attività dei propri figli e, più in generale, le scelte educative da portare avanti nell’interesse dei minori. Lo strumento utilizzato per ovviare a questa difficoltà è il piano genitoriale (art 473 bis.12 ultimo comma c.p.c.) introdotto dalla riforma Cartabia, che deve essere allegato al ricorso e che indica gli impegni e le attività quotidiane dei figli relativi al percorso educativo, alla scuola, alle attività extrascolastiche, alle frequentazioni abituali e alle vacanze normalmente godute. In caso di discordanza tra i piani dei genitori, il giudice “può formulare una proposta di piano genitoriale tenendo conto di quelli allegati dalle parti”. L’accettazione del piano proposto dal giudice obbliga le parti a osservarne il contenuto. Il mancato rispetto delle condizioni, infatti, costituisce un comportamento sanzionabile con le misure previste dall’art.473-bis.39.
È importante che il piano genitoriale venga inteso in primo luogo come un’occasione di riflessione da parte dei genitori per ripensare a come vivere il loro nuovo status di genitori post-separazione o divorzio, e in secondo luogo come un progetto sull’esercizio della responsabilità genitoriale.
In questo contesto, la riforma Cartabia ha assegnato ampio spazio alle ADR (Alternative Dispute Resolution), un insieme di tecniche quali l’arbitrato, la mediazione civile, il negoziato e la mediazione familiare che si propongono come strumenti di risoluzione alle controversie alternativi al procedimento giudiziale ordinario.
In particolare, la riforma prevede al comma 23, lettera ee, la facoltà per il Giudice di nominare un professionista che offri supporto al Giudice nel superamento dei conflitti, nell’ausilio dei minori e per la ripresa o il miglioramento delle relazioni tra i genitori e i figli. Nello specifico, la riforma prevede che queste figure professionali – formatisi ai sensi della legge 4/2013 – abbiano specifiche competenze in materia di diritto di famiglia, minori e violenza domestica, e abbiano l’obbligo di interrompere la mediazione familiare qualora emergano forme di violenza.
Nella legge non si fa menzione specifica alla Coordinazione Genitoriale, ma il riferimento a questa tecnica di risoluzione al conflitto è chiaro.
Come definito dall’Ordine degli Psicologi della Lombardia, la coordinazione genitoriale
è un processo di risoluzione alternativa delle controversie (c.d. ADR) centrato sul bambino attraverso il quale un professionista della salute mentale o di ambito giuridico, con formazione ed esperienza nella mediazione familiare, aiuta i genitori altamente conflittuali ad attuare il loro piano genitoriale, facilitando la risoluzione delle controversie in maniera tempestiva, educandoli in merito ai bisogni dei loro figli e, previo consenso delle parti e /o del giudice, prendendo decisioni all’interno dell’ambito dell’ordine del tribunale o del contratto di incarico ricevuto. L’obiettivo globale della coordinazione genitoriale è assistere i genitori con alto livello di conflitto ad attuare il loro piano genitoriale, monitorare l’osservanza dello stesso, risolvere tempestivamente le controversie riguardanti i loro figli e l’attuazione del piano genitoriale nonché proteggere, salvaguardare e preservare una relazione genitore-bambino sicura, sana e significativa. La coordinazione genitoriale è un processo di risoluzione alternativa delle controversie incentrata sulla tutela della salute, che integra la valutazione, l’educazione, la gestione del caso, la gestione del conflitto e, talvolta, integra funzioni decisionali (Ordine Psicologi Lombardia, 2024).
La coordinazione genitoriale si applica a un sistema familiare nel suo insieme, sia come famiglia separata, che come famiglia ricostituita o allargata. Promuove il dialogo tra le figure professionali che appartengono a diversi ambiti quali l’ambito psicologico, giuridico e sociale affinché i genitori possano essere coadiuvati nelle scelte che riguardano i figli e nell’applicazione di quanto prevedono le disposizioni emesse dall’Autorità Giudiziaria.
La figura di un Coordinatore Genitoriale è necessaria in casi in cui la mediazione familiare non ha avuto successo, quando ai figli viene negato il contatto fisico e/o emotivo con un genitore e quando il conflitto si rivela persistente, pervasivo e intenso, vale a dire caratterizzato da aggressività e sentimenti di ostilità che fanno sì che la coppia non raggiunga alcun accordo.
L’incarico del Coordinatore può aver luogo sia da parte del tribunale, sia su incarico delle parti. La durata dell’incarico è di sei mesi rinnovabili fino a un massimo di ventiquattro (CO.ME.TE., 2024)
L’efficacia e l’importanza della coordinazione genitoriale è un tema verso il quale occorre sensibilizzare tutti i professionisti che ruotano intorno alle famiglie in conflitto. Un approccio multidisciplinare e collaborativo, infatti, permetterà di gestire i conflitti in maniera più organizzata e costruttiva.
L’efficacia della coordinazione genitoriale è già evidente in molti casi. Nell’ordinanza nella causa civile iscritta al n.52678/2021 V.G., ad esempio, lo Studio Miraglia ha riscontrato ottimi risultati a seguito di un processo di coordinazione genitoriale che ha aiutato i genitori nella creazione di un rapporto più collaborativo e aperto a trovare soluzioni che prendessero in considerazione il benessere del figlio. Inoltre, la sentenza fornisce una dimostrazione empirica di come i molteplici aspetti che spesso i genitori in conflitto insistono nel voler portare nel giudizio possano essere spostati in altri ambiti di risoluzione che garantiscano l’effettiva presa in carico e successivamente la concreta risoluzione del conflitto.
In questo senso, la riforma Cartabia apporta notevoli cambiamenti che si presentano come strumenti volti a conferire maggiore efficienza nei procedimenti relativi alle persone e alla famiglia.
Francesco Miraglia
REFERENZE
Ordine Psicologi Lombardia (2024), “La Coordinazione Genitoriale”. Disponibile al seguente link: https://www.opl.it/public/files/11516-Appendice_Coordinazione_Genitoriale_definizione_obiettivi_2018.pdf
CO.ME.TE – Associazione Nazionale (2024), “La Riforma Cartabia e il processo di famiglia: le tecniche alternative alla risoluzione del conflitto”. Disponibile al seguente link: https://www.comete-nazionale.it/la-riforma-cartabia-e-il-processo-di-famiglia-le-tecniche-alternative-alla-risoluzione-del-conflitto/
La Legge del 25 giugno 1993, n. 205 detta anche legge Mancino, dal nome dell’allora ministro dell’Interno che ne fu proponente, Nicola Mancino, è un atto legislativo della Repubblica Italiana che sanziona e condanna frasi, gesti, azioni e slogan aventi per scopo l’incitamento all’odio, alla violenza, la discriminazione e la violenza per motivi razziali, etnici, religiosi o nazionali.
La legge Mancino non è la prima legge in materia di discriminazione in Italia: l’art. 3 della Costituzione, infatti, garantisce il diritto all’uguaglianza. Già nel 1975, con la legge n. 654, era stata recepita nell’ordinamento italiano la Convenzione di New York sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale del 1966. La legge puniva con una reclusione da uno a quattro anni chi diffondeva “in qualsiasi modo idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale” e “chi incita in qualsiasi modo alla discriminazione, o incita a commettere o commette atti di violenza o di provocazione alla violenza, nei confronti di persone perché appartenenti a un gruppo nazionale, etnico o razziale”.
Con la legge 101 del 1989, l’articolo della legge del 13 ottobre 1975 n.654 si estese anche alle “manifestazioni di intolleranza e di pregiudizio religioso”. Nel 1993, proprio con l’art. 1 della legge Mancino, l’articolo fu riformulato: “È punito con la reclusione da uno a quattro anni:
La legge Mancino inoltre vieta “ogni organizzazione, associazione, movimento o gruppo avente tra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi. Chi partecipa a tali organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi, o presta assistenza alla loro attività, è punito, per il solo fatto della partecipazione o dell’assistenza, con la reclusione da sei mesi a quattro anni. Coloro che promuovono o dirigono tali organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi sono puniti, per ciò solo, con la reclusione da uno a sei anni”.
L’obiettivo della norma è tutelare il rispetto della dignità umana e del principio di uguaglianza nazionale, etnica e religiosa. La norma punisce qualsiasi condotta di propaganda sulla superiorità nonché l’istigazione e la propaganda di fatti o attività atte a provocare violenza.
Nel contesto sociale in cui viviamo è sempre più importante adottare un linguaggio che non sottolinei le differenze, creando concetti di superiorità e inferiorità e quindi perpetuando cicli di ineguaglianza e gerarchia, ma che crei una forma di comunicazione ispirata ai principi di uguaglianza, che valorizzi l’unicità dei singoli individui e delle loro esperienze. È necessario, dunque, adottare un linguaggio inclusivo che non produca generalizzazioni che sono lesive dei principi di pari opportunità.
In aggiunta a questo, è necessario sottolineare la pericolosità dietro la diffusione di contenuti discriminatori su piattaforme televisive che amplificano ulteriormente queste generalizzazioni, normalizzando e diffondendo concetti che non fanno altro che semplificare e banalizzare la complessità della realtà. Occorre dunque offrire delle informazioni oggettive e rigorose affinché gli individui possano informarsi e conoscere un fenomeno o un aspetto della realtà senza che le loro opinioni vengano polarizzate.
A questo proposito, le affermazioni di Mauro Corona durante la trasmissione di Bianca Berlinguer riflettono una forma di comunicazione che sebbene possa essere stata concepita a fin di bene, finisce per creare una disparità. Di fatto, parlare di inferiorità implica che un gruppo di individui, in questo caso un genere, è inferiore rispetto a un altro.
Smettere di categorizzare la realtà in opposti ci permetterà di sradicare un sistema linguistico, e successivamente sociale e politico, che al momento non ci permettere di vedere oltre i limiti che noi stessi imponiamo alle cose etichettandole come migliori o peggiori, superiori e inferiori e non diverse, o semplicemente uniche.
Dal punto di visa legale, la natura discriminatoria delle affermazioni di Corona rientra nella normativa vigente, in particolare nella Legge Mancino (L. 205/1993) e nell’art. 604-bis del Codice Penale, che sanzionano comportamenti discriminatori e incitanti all’odio.
Tuttavia, ci sono delle parti di queste leggi che dovrebbero essere ulteriormente integrate e rafforzate affinché possano proteggere in maniera più efficace la comunicazione discriminatoria. A questo proposito si avanzano delle proposte di integrazione dell’Art. 604-bis che introducano:
È fondamentale chiarire che le proposte avanzate non intendono limitare in alcun modo la libertà di espressione, ma piuttosto garantire che questa venga esercitata nel rispetto dei diritti e della dignità di ogni individuo affinché si possa costruire attivamente una società equa, giusta, che garantisca i diritti umani universali.
È inoltre fondamentale specificare che la chiave affinché cambi la cultura di una nazione è l’istruzione. Insegnare significa decidere di raccontare una storia che privilegi le differenze e le veda come fonte di crescita e di ricchezza piuttosto che come elemento di competizione e di avversità.
Una volta avvenuto un cambiamento strutturale nel linguaggio che adottiamo e quindi nella narrazione dei fenomeni che raccontiamo si potranno verificare cambiamenti sociali, e in seguito economici che valorizzino l’unicità di un individuo, non più legata al suo sesso. Ai cambiamenti linguistici, sociali ed economici si integrerà un nuovo modo di vedere e di intendere la politica come il complesso apparato che amministra e gestisce un popolo il cui fine ultimo è la difesa e tutela dei diritti di tutte le persone che lo compongono.
Francesco Miraglia
Stasera alle ore 21, in diretta streaming, si terrà un importante dibattito sul tema delle manipolazioni mediatiche e dell’odio in TV, organizzato dall’Associazione Papà Insieme. Questo evento è stato promosso in risposta alle recenti polemiche scatenate dalle dichiarazioni di Mauro Corona durante la trasmissione “È sempre Carta Bianca”. L’obiettivo è approfondire la questione e proporre soluzioni concrete per contrastare la diffusione di contenuti discriminatori nei media.
Tra gli altri, interverrà Francesco Miraglia sulla Legge Mancino e le Dichiarazioni di Mauro Corona
Nel contesto delle polemiche suscitate dalle dichiarazioni di Mauro Corona durante la trasmissione “È sempre Carta Bianca”, è fondamentale richiamare l’attenzione sulla normativa vigente e sulla necessità di ulteriori misure per contrastare la diffusione di contenuti discriminatori. La Legge del 25 giugno 1993, n. 205, comunemente nota come legge Mancino, è un atto legislativo della Repubblica Italiana che sanziona e condanna frasi, gesti, azioni e slogan aventi per scopo l’incitamento all’odio, alla violenza, alla discriminazione per motivi razziali, etnici, religiosi o nazionali.
La legge Mancino non è la prima normativa italiana in materia di discriminazione. L’art. 3 della Costituzione garantisce il diritto all’uguaglianza e, già nel 1975, con la legge n. 654, l’Italia aveva recepito la Convenzione di New York sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale del 1966. Tale legge puniva con la reclusione da uno a quattro anni chi diffondeva “idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale” e chi incitava alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici o nazionali.
Con la legge 101 del 1989, l’articolo della legge del 1975 fu esteso alle “manifestazioni di intolleranza e di pregiudizio religioso”. Nel 1993, con l’art. 1 della legge Mancino, l’articolo fu riformulato per includere le seguenti sanzioni:
Reclusione da uno a quattro anni per chi diffonde idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico. Reclusione per chi incita alla discriminazione o all’odio, o incita a commettere violenza o atti di provocazione alla violenza. La legge Mancino inoltre vieta “ogni organizzazione, associazione, movimento o gruppo avente tra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi.” Chi partecipa a tali organizzazioni è punito con la reclusione da sei mesi a quattro anni, mentre i promotori o dirigenti sono puniti con la reclusione da uno a sei anni. Nel contesto sociale attuale, è cruciale adottare un linguaggio che non sottolinei le differenze, evitando di creare concetti di superiorità e inferiorità. Questo approccio perpetua cicli di ineguaglianza e gerarchia. Invece, la comunicazione dovrebbe ispirarsi ai principi di uguaglianza e valorizzare l’unicità dei singoli individui e delle loro esperienze. È essenziale un linguaggio inclusivo che eviti generalizzazioni lesive dei principi di pari opportunità.
Le dichiarazioni di Mauro Corona durante la trasmissione di Bianca Berlinguer, sebbene possano essere state concepite a fin di bene, finiscono per creare una disparità. Parlare di superiorità implica automaticamente che un gruppo di individui, in questo caso un genere, è inferiore rispetto a un altro. Dal punto di vista legale, le affermazioni di Corona rientrano nella normativa vigente, in particolare nella Legge Mancino e nell’art. 604-bis del Codice Penale, che sanzionano comportamenti discriminatori e incitanti all’odio. Tuttavia, queste leggi dovrebbero essere ulteriormente integrate e rafforzate per proteggere più efficacemente contro la comunicazione discriminatoria. A tal proposito, si avanzano le seguenti proposte di integrazione dell’Art. 604-bis:
Introduzione di un nuovo articolo di legge che sancisca esplicitamente il divieto di comunicazione discriminatoria di genere nei mezzi di comunicazione di massa, con particolare attenzione ai programmi televisivi e radiofonici. Pene severe pecuniarie e detentive, inclusa la reclusione fino a 5 anni, per chiunque sia responsabile della produzione o diffusione di tali contenuti. L’obbligo di allontanamento immediato dal lavoro e l’esclusione permanente dall’albo di appartenenza per i professionisti coinvolti.
Implementazione di un meccanismo di controllo e monitoraggio dei contenuti trasmessi, con potere di intervento immediato da parte delle autorità competenti. È fondamentale chiarire che queste proposte non intendono limitare in alcun modo la libertà di espressione, ma piuttosto garantire che questa venga esercitata nel rispetto dei diritti e della dignità di ogni individuo. Solo così si può costruire una società più equa e giusta, che garantisca i diritti umani universali.
La chiave per il cambiamento culturale di una nazione risiede nell’istruzione. Un linguaggio che valorizzi le differenze come fonte di crescita e ricchezza, piuttosto che elementi di competizione e avversità, può portare a cambiamenti strutturali nel linguaggio, nella società e nella politica. Questo nuovo approccio può infine portare a un sistema politico che difende e tutela i diritti di tutte le persone che compongono la nostra comunità.
“Solo attraverso un linguaggio che abbraccia le differenze possiamo spezzare le catene della discriminazione e costruire una società dove ogni voce è ascoltata e rispettata.”
Francesco Miraglia
Prima di tutto, desidero esprimere la mia gratitudine alla libreria “Libro amico” per averci dato questa meravigliosa opportunità e per l’eccezionale ospitalità che ci ha permesso di ritrovarci qui stasera.
Voglio ringraziare ciascuno di voi per essere qui, per la vostra presenza e per condividere con noi questo momento significativo.
Un ringraziamento speciale va agli altri relatori e all’Avvocato Ernesto Siclari, che ci onora con la sua presenza.
Il libro che presentiamo oggi è dedicato a chi cerca conoscenza e comprensione, per imparare prima a capire e poi ad agire di conseguenza. Racconta la storia di Sara, una ragazza disabile, che affronta la sua diversità giorno per giorno, mostrando gli sforzi e la forza interiore necessari per non lasciarsi abbattere e per vivere con dignità.
Attraverso la storia di Sara, il libro invita a riflettere sull’unicità di ogni persona, sul diritto alla diversità e sulla libertà di espressione in un contesto di eguaglianza.
Affermare “ci sono anch’io” è riconoscere la nostra unicità e trovare la nostra voce, anche quando può sembrare difficile farla sentire da soli.
Quest’opera si propone come un viaggio attraverso i principi di diritto che sono alla base della tutela delle persone, spesso trascurati e che richiedono di essere rafforzati senza cadere nella retorica.
In una prospettiva sociale e inclusiva, molto è stato fatto ma molto rimane ancora da fare. Il nostro libro esplora le diverse sfaccettature della disabilità, trattando il tema non solo come una questione di diritti, ma anche come una profonda espressione della diversità umana.
Si propone di sfidare i pregiudizi e di aprire un dialogo costruttivo sull’importanza delle differenze nella nostra società.
È fondamentale considerare la disabilità come parte naturale della vita umana, promuovendo l’inclusione a partire dalle scuole, per assicurare che bambini con e senza disabilità crescano insieme, apprezzando le diversità e sviluppando un senso di uguaglianza.
Gli educatori devono essere formati per soddisfare le esigenze di tutti gli studenti e utilizzare materiali didattici accessibili. È essenziale garantire che tutti gli spazi pubblici, i luoghi di lavoro, i trasporti e le piattaforme digitali siano completamente accessibili a persone con diverse disabilità.
Dobbiamo anche rafforzare le leggi che proteggono i diritti delle persone disabili e assicurare loro piena attenzione e supporto.
Recentemente, un episodio di esclusione di studenti disabili da una gita scolastica ha evidenziato quanto sia ancora lungo il cammino verso una società veramente inclusiva. Questi sono gli atteggiamenti e le politiche che il nostro libro sfida e contro cui lotta.
“Ci sono anch’io” ci insegna che l’inclusione non è un privilegio, ma un diritto. Ogni individuo, indipendentemente dalle sue abilità, ha il diritto di partecipare pienamente alla vita sociale ed educativa.
Dietro ogni disabilità si nascondono sogni, speranze e storie di resilienza che meritano di essere ascoltate. Ascoltiamole con il cuore aperto e lasciamoci ispirare dalla loro forza e determinazione.
Quando un bambino con disabilità partecipa a una gita scolastica, non solo apprende lezioni fuori dalla classe, ma insegna a tutti noi una lezione preziosa sull’inclusione, sulla forza e sulla gioia pura di essere riconosciuti come parte del gruppo.
Grazie ancora per essere qui con noi stasera. Spero che la lettura di questo libro vi ispiri tanto quanto la scrittura ha ispirato me.
Francesco Miraglia