Torna a casa il ragazzo allontanato dalla famiglia per uno schiaffo
Il Tribunale per i minorenni di Trento ha disposto la collocazione presso la famiglia di origine di un minore di Trento di 13 anni che alcuni anni fa era stato allontanato, a dire della famiglia, per uno “schiaffo”.
Probabilmente lo schiaffo ha avviato le procedure di tutela, ma in realtà leggendo il decreto si scopre che le motivazioni dell’allontanamento erano prevalentemente di natura psicologica: “Scarsa consapevolezza del padre circa i bisogni sia emotivi che educativi del figlio che presenta rilevanti aspetti di fragilità relazionale.”
Peccato che quest’anno, proprio dopo il collocamento in comunità, il ragazzo sia stato bocciato! «Sono molto soddisfatto dell’epilogo di questa vicenda, in primo luogo perché, finalmente si comincia a rispettare la volontà del minore attraverso l’ascolto dello stesso. Sono contento anche perché queste decisioni servono a conseguire quella necessità di integrazione tanto sbandierata a destra e a manca. In certe vicende, che riguardano soprattutto cittadini stranieri, come nel caso specifico, bisogna avere maggiore sensibilità nel capire i comportamenti e i modi di fare che sicuramente sono diversi dai nostri, sempre però nel rispetto della legge e dei minori. Mi sento anche di sottolineare la sensibilità del Giudice Onorario che ha ben compreso il desiderio del ragazzo e della sua famiglia di mettersi in discussione,» ha dichiarato l’avvocato della coppia Francesco Miraglia.
Il ragazzo circa un mese fa era scappato dalla comunità di Rovereto ed era tornato in famiglia. In seguito l’assistente sociale del polo di Trento, invece di cercare di capire le motivazioni della sua scelta, l’aveva “convinto” a tornare in comunità. Infatti, il ragazzo riferisce che nel corso dell’udienza presso il tribunale gli avrebbero intimato di tornare in comunità anche se non voleva e che l’avrebbero riportato anche con la forza.
Alla fine ha accettato di tornare in comunità. I genitori riferiscono anche che hanno sentito il bambino piangere durante il colloquio.
Ma solo pochi giorni dopo, il ragazzo si è rifiutato di tornare in comunità ed è rimasto a casa. E ora finalmente il decreto del giudice riconosce la volontà del ragazzo e il suo diritto alla propria famiglia, restituendo ai genitori la responsabilità genitoriale.
Proprio in seguito all’esito positivo della vicenda, mantenendo l’anonimato per proteggere la privacy del figlio, la famiglia ha deciso di rivolgersi alla stampa per informare altre famiglie meno fortunate che il clima è cambiato e che possono far valere i propri diritti. La famiglia sta altresì valutando delle azioni a livello deontologico, legale o risarcitorio nei confronti di chi ha sbagliato, non tanto in uno spirito di rivalsa ma per impedire che drammi simili possano colpire altre famiglie.
Secondo il Comitato dei Cittadini per i Diritti Umani: «Per iniziare, precisiamo che la maggior parte degli operatori sono professionali ed efficienti, considerata la delicatezza e complessità di queste vicende. Il caso in questione ci mostra come in Trentino sia in atto una riforma positiva in cui molte forze e persone stanno cercando di affrancarsi da certe teorie psichiatriche e psicologiche alla base di molti allontanamenti superficiali o addirittura errati, ma ci sono ancora delle resistenze con alcuni operatori che persistono nei vecchi atteggiamenti e considerazioni. Nel caso di specie, infatti, non c’era nessun abuso sul bambino se non la presunta “incapacità” del padre, e la soluzione adottata oggi poteva essere adottata fin dall’inizio.
Siamo lieti di apprendere che la prima assistente sociale sul caso, che conoscevamo già per altre vicende, sia stata allontanata dall’area minori, tuttavia riteniamo che ci voglia ancora più coraggio nell’ambito della tutela minorile. Non è accettabile che un ragazzo venga fatto piangere dall’assistente sociale, e ci auguriamo di non dover mai più essere messi al corrente di certi accadimenti. Nel frattempo ricordiamo i due casi da noi denunciati delle assistenti (una censurata e l’altra indagata dall’Ordine) che lavorano ancora con i bambini. Riteniamo che un atto di coraggio da parte delle amministrazioni nei confronti di queste operatrici potrebbe scoraggiare chi desidera persistere in atteggiamenti invasivi e coercitivi nei confronti delle famiglie e dei bambini.»