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“Mai Più Un Bambino” in difesa degli oltre 40.000 minori allontanati dal loro nucleo familiare

COMUNICATO STAMPA

Presentazione del libro “Mai Più Un Bambino” in difesa degli oltre 40.000 minori allontanati dal loro nucleo familiare

Sensibilizzare gli adulti e gli addetti ai lavori sulle tematiche legate alla famiglia e soprattutto tutelare i bambini cercando, qualora ci siano situazioni di profondo disagio, di offrire loro un valido supporto psicopedagogico e optare affinché rimangano il più possibile vicini al loro nucleo familiare originario.
Sarà proprio questo uno dei principali argomenti della serata “Mai Più Un Bambino: indagine sociale sul fenomeno dei bambini abusati, sottratti alle famiglie, abbandonati, sottoposti ad abuso diagnostico e terapeutico”, che si terrà il prossimo 29 aprile alle ore 20.45 presso la Sala teatro “Falcone-Borsellino”, in via Roma n. 44 a Limena (Padova).
L’iniziativa, promossa dal Comune di Limena e dall’Istituto Nazionale di Pedagogia Familiare (INPEF) di Roma sarà moderata dalla dott.ssa Monia Gambarotto, conduttrice di Caffè TV 24 e vedrà la partecipazione del sindaco della cittadina Giuseppe Costa e dell’assessore ai Servizi sociali, Stefano Tonazzo. Tra gli ospiti l’avvocato Francesco Miraglia del Foro di Modena, la prof.ssa Vincenza Palmieri dell’INPEF e l’onorevole Antonio Guidi, ex ministro per la Famiglia, autori del libro “Mai Più Un Bambino” (Armando Editore, 2013) oltre che il giudice del Tribunale per i Minorenni di Bologna, Francesco Morcavallo.
“”Mai Più Un Bambino” – spiega l’avvocato Miraglia – non è soltanto il titolo del libro che presenteremo questa sera ma è una vera e propria petizione che stiamo portando e facendo conoscere in tutta Italia e che ci auguriamo venga sottoscritta da molti. Petizione, va ricordato, che si propone di realizzare una serie di azioni pratiche per aiutare i bambini che sono stati allontanati dalle loro famiglie e che nel 2010, in Italia, sono stati circa 40.000 (di età compresa tra 0 e 17 anni). Un dato decisamente allarmante. Diversi i motivi che hanno spinto gli Enti preposti a compiere questo atto. Per il 37% dei casi il motivo è stato l’inadeguatezza genitoriale, per il 9% la dipendenza dei genitori, per l’8% i problemi relazionali tra i genitori, per il 7% i maltrattamenti e l’incuria e infine il 6% è dipeso dai problemi sanitari dei genitori. Allontanamenti che hanno portato i bambini a vivere in case famiglie o altre strutture che spesso si sono rilevate incapaci di tutelarli e curarli. Proprio per evitare che questa situazione si riproponga, insieme agli altri autori della pubblicazione, stiamo proponendo nelle sedi opportune una serie di iniziative legislative per garantire loro una maggiore tutela e benessere sociale, oltre ad informare e sensibilizzare le famiglie e gli addetti ai lavori su questa problematica attraverso la partecipazione e organizzazione di convegni (in Senato, alla Camera, presso la Presidenza del Consiglio, in Campidoglio), seminari, serate, incontri in tutta Italia”.
 

Il sistema delle case famiglia in Italia

  
Oggi  in Italia ci sono 32.391 bambini che vengono  collocati elle casa-famiglie o dati in affido a un’altra famiglia, spesso per cause non del tutto giustificate. La mappa di questi bambini “collocati fuori la propria famigliai”  registra:
 

  1. Il 14% dei bambini collocati in questi istituti è straniero;
  2. Sono 15.624 i minorenni collocati in case famiglia;
  3. Sono 16.767 quelli dati in affido familiare;
  4. Il 29.3% è il tassi di crescita degli affidi di minori negli ultimi dieci anni;
  5. È di 2 anni la permanenza media di un bambino in questi orfanotrofi privati;
  6. Il 50% circa dei bambini usciti da questi “posti” torna nella famiglia d’origine;
  7. La retta media di un bambino in comunità varia da una Regione all’altra, a seconda anche del tipo di residenza in cui viene collocato il minore. Numerosi esperti concordano su un costo di 200 euro al giorno.

 
Se si pensa che praticamente non esistono controlli e che nella maggior parte dei casi ci troviamo di fronte a personale impreparato e spesso non idoneo al ruolo di educatore, ne deriva quanto sia importante un netto cambiamento in questo campo e quali responsabilità gravino sui Tribunali dei Minorenni.
 
A conclusione di questo piccolo dedicato al business sui “bambini rapiti dai giudici”, ci sembra importante presentare una mappa regionale del collocamento dei 32.391 bambini, che sono cosi suddivisi:
 
–        Lombardia 4.244
 
–        Provincia di Trento 355
 
–        Provincia di Bolzano 313
 
–        Veneto 1.673
 
–        F.V. Giulia: 619
 
–        Emilia Romagna 2.367
 
–        Valle D’Aosta 57
 
–        Marche 667
 
–        Piemonte 2.624
 
–        Umbria 502
 
–        Liguria 1.258
 
–        Abruzzo 541
 
–        Toscana 2.171
 
–        Molise 64
 
–        Lazio 3.923
 
–        Campania 2.820
 
–        Sardegna 772
 
–        Basilicata 232
 
–        Sicilia 2.984
 
–        Puglia 3.193
 
–        Calabria 1.012
 
–        TOTALE 32.391
 
I periodi di permanenza dei minori accolti presentano una differenziazione notevole. Accanto a bambini e ragazzi che sono in accoglienza da pochi giorni, ce ne sono altri che lo sono da anni.
 
Tra i presenti al 31 dicembre 2010:
 

  • Ø il 9,1% è stato accolto negli ultimi 3 mesi;
  • Ø il 23,8% da 3 mesi a 12 mesi esatti;
  • Ø il 19% da 12 mesi a 24 mesi;
  • Ø il 22% da 24 mesi a 48 mesi esatti;
  • Ø il 26% da oltre 48 mesi.

 
 
 
Quasi inversi sono i dati tra i dimessi nel corso del 2010:
 

  • Ø il 28% è stato accolto per meno di 3 mesi;
  • Ø il 27% da 3 mesi a 12 mesi esatti;
  • Ø il 19% da 12 mesi a 24 mesi esatti;
  • Ø il 16% da 24 a 48 mesi esatti;
  • Ø il 10% da oltre 48 mesi.

 
 
 
In generale tra i dimessi nel corso del 2010 si riscontra che:
 
il 34% rientra in famiglia;
 
il 33% cambia accoglienza;
 
l’8% fa vita autonoma;
 
il 7% va in affidamento preadottivo.
 
 
 
A fine 2010 sono presenti 2.844 neo-maggiorenni (18-21 anni), di cui il 36% è straniero.
 
La presenza straniera sul totale dei bambini e dei ragazzi fuori dalla propria famiglia è cresciuta considerevolmente negli anni passando da poco meno del 10% del 1998-1999 al 22% del 2010. In alcune regioni la loro presenza assume una consistenza particolarmente rilevante: Emilia-Romagna (38%), Toscana (35%), Provincia di Trento (31%), Veneto (31%), Marche (31%).
 
È inoltre da segnalare come poco meno del 21% del totale degli stranieri – ovvero circa il 4% del totale dei “fuori famiglia” – sia costituito da minori stranieri non accompagnati (o, meglio, adolescenti stranieri migranti “soli”), di età media 11-13 anni, stimabili in 4.558 unità. Essi rappresentano il 4,4% del totale dei bambini e dei ragazzi fuori dalla famiglia e, come già detto, un consistente 22% del totale degli stranieri presenti nei servizi residenziali familiari e socio-educativi e presso le famiglie affidatarie.
 
Poco meno di 1 bambino su 10 presenta una qualche forma di disabilità certificata. Nel dettaglio:
 

  • Ø il 7% presenta una disabilità psichica;
  • Ø poco più del 2% una disabilità plurima;
  • Ø poco più dell’1% una disabilità fisica;
  • Ø lo 0,4% una disabilità sensoriale.

 
 
 
La distribuzione secondo l’età di inizio dell’accoglienza dei bambini e ragazzi presenti al 31 dicembre 2010 ha un picco nella classe 6-10 anni, mentre la distribuzione dei presenti a fine anno 2010 fotografati alla stessa data presenta un picco in corrispondenza della classe 14-17 come conseguenza diretta delle durate di permanenza in accoglienza.
 
La Convenzione sui Diritti del fanciullo (ONU, 1989)
 
La normativa italiana poggia a sua volta le proprie basi su un testo internazionale di fondamentale importanza. Si tratta della Convenzione sui Diritti del fanciullo che è stata adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite a New York il 20 novembre 1989 ed è stata ratificata dall’Italia, diventando di conseguenza esecutiva, con la Legge n. 176 del 27 maggio 1991.
 
Questo documento basilare affronta il tema dei diritti dei minori e degli strumenti per la loro attuazione da parte di tutti gli Stati sottoscrittori.
 
Già nel preambolo la Convenzione enuncia l’importanza e il significato della famiglia come unità fondamentale della società per un sano, felice ed equilibrato sviluppo del minore:
 
“Rammentando che nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo le Nazioni Unite hanno proclamato che l’infanzia ha diritto ad un aiuto e ad un’assistenza particolari,
 
convinti che la famiglia, unità fondamentale della società ed ambiente naturale per la crescita ed il benessere di tutti i suoi membri ed in particolare dei fanciulli, deve ricevere la protezione e l’assistenza di cui necessita per poter svolgere integralmente il suo ruolo nella collettività,
 
riconoscendo che il fanciullo, ai fini dello sviluppo armonioso e completo della sua personalità, deve crescere in un ambiente familiare in un clima di felicità, di amore e di comprensione,
 
in considerazione del fatto che occorre preparare pienamente il fanciullo ad avere una sua vita individuale nella Società, ed educarlo nello spirito degli ideali proclamati nello Statuto delle Nazioni Unite, in particolare in uno spirito di pace, di dignità, di tolleranza, di libertà, di uguaglianza e di solidarietà..”.
 
Il documento risulta di significativa importanza perché, come già sottolineato, riconosce il minore come soggetto titolare di diritti e dichiara la necessità che i Paesi sottoscrittori dispongano strumenti in loro tutela.
 
Altro elemento importante è la definizione della famiglia come luogo naturale più idoneo ad accompagnare la crescita del minore assegnando alle istituzioni la responsabilità di garantirne la tutela e di preservare l’esigibilità del diritto di ciascuno a questa.
 
 
 
La legislazione italiana
 
Secondo quanto sancito dall’art. 4 della Convenzione dei Diritti del fanciullo gli Stati parte hanno dovuto adottare tutti i provvedimenti legislativi, amministrativi e quant’altro, necessari a dare attuazione ai diritti da essa riconosciuti. L’Italia ha emanato una serie di leggi che tutelano i diritti dei minori, tra cui:
 
Legge 28 agosto 1997, n. 285
 
Disposizioni per la promozione di diritti e di opportunità per l’infanzia e l’adolescenza
 
Legge 23 dicembre 1997, n. 451
 
Istituzione della Commissione parlamentare per l’infanzia e dell’Osservatorio nazionale per l’infanzia
 
Legge 3 agosto 1998, n. 269
 
Norme contro lo sfruttamento della prostituzione, della pornografia e del turismo sessuale in danno di minori quali nuove forme di schiavitù
 
Legge 25 maggio 2000, n. 148
 
Ratifica ed esecuzione della Convenzione n. 182 relativa alla proibizione del lavoro minorile e alle azioni per la sua eliminazione, nonché della Raccomandazione n. 190 sullo stesso argomento adottata alla Conferenza dell’Organizzazione Generale del Lavoro del 17 giugno 1999, Ginevra
 
Legge 4 aprile 2001, n. 154
 
Misure contro la violenza nelle relazioni familiari
 
Legge 11 marzo 2002, n.46
 
Ratifica ed esecuzione dei protocolli opzionali alla Convenzione dei Diritti del fanciullo, concernenti la vendita e la prostituzione dei minori, la pornografia rappresentante bambini e il coinvolgimento dei bambini nei conflitti armati, stipulati a New York il 6 settembre 2000
 
Legge del 20 marzo 2003, n. 77
 
Ratifica ed esecuzione della Convenzione europea sull’esercizio dei diritti dei fanciulli, stipulata a Strasburgo il 25 gennaio 1996
 
Legge del 28 marzo 2001, n. 149
 
Modifiche alla legge 4 maggio 1983, n. 184, recante “Disciplina dell’adozione e dell’affidamento dei minori”, nonché al titolo VIII del libro primo del Codice Civile
 
Legge del 31 dicembre 1998, n. 476
 
Ratifica ed esecuzione della Convenzione per la tutela di minori e la cooperazione in materia di adozione internazionale, stipulata a L’Aja il 29 maggio 1993. Modifiche alla legge 4 maggio 1983, n. 184 in tema di adozione di minori stranieri.
 
 
 
La Legge 149/2001 al Titolo 1 “Diritto del minore alla propria famiglia” art. 1 recita:
 
“Le condizioni di indigenza dei genitori o del genitore esercente la potestà genitoriale non possono essere di ostacolo all’esercizio del diritto del minore alla propria famiglia. A tal fine a favore della famiglia sono disposti interventi di sostegno e di aiuto”. L’articolo prosegue affermando al comma 3:
 
“Lo Stato, le regioni e gli enti locali, nell’ambito delle proprie competenze, sostengono, con idonei interventi, nel rispetto della loro autonomia e nei limiti delle risorse finanziarie disponibili, i nuclei familiari a rischio al fine di prevenire l’abbandono e di consentire al minore di essere educato nell’ambito della propria famiglia. Essi promuovono altresì iniziative di formazione dell’opinione pubblica sull’affidamento e l’adozione e di sostegno all’attività delle comunità di tipo familiare, organizzano corsi di preparazione ed aggiornamento professionale degli operatori sociali nonché incontri di formazione e preparazione per le famiglie e le persone che intendono avere in affidamento o in adozione minori. I medesimi enti possono stipulare convenzioni con enti o associazioni senza fini di lucro che operano nel campo della tutela dei minori e delle famiglie per la realizzazione delle attività di cui al presente comma”.
 
La Legge procede per altro in modo molto preciso e stabilisce al Titolo 2 art. 2 lettera l che:
 
“Il minore temporaneamente privo di un ambiente familiare idoneo, nonostante gli interventi di sostegno e aiuto disposti ai sensi dell’articolo 1, è affidato ad una famiglia, preferibilmente con figli minori, o ad una persona singola, in grado di assicurargli il mantenimento, l’educazione, l’istruzione e le relazioni affettive di cui egli ha bisogno”. Aggiunge inoltre che per i minori di età inferiore ai 6 anni è possibile l’inserimento solo in comunità di tipo familiare.
 
Ma chi sono questi minori che vengono tolti alle proprie per essere affidati ad estranei?
 
Si tratta, come si sarà già ben compreso, non di orfani o di bambini abbandonati bensì di figli. Figli con i propri padri e le proprie madri che, una volta tolti alle famiglie d’origine, è come se diventassero “orfani con i genitori in vita”.
 
Vediamo adesso nel dettaglio i dati sui minori accolti in relazione ai loro genitori, dati il più eclatante dei quali è sicuramente quello che ci dimostra che quasi tutti i bambini (95%!) in affidamento extra-familiare hanno una famiglia o almeno un genitore. Infatti:
 
 
 

  • Ø solo l’1% è orfano di entrambi i genitori;
  • Ø l’8% è orfano di padre;
  • Ø il 5% è orfano di madre;
  • Ø un 1% è figlio di genitori ignoti (e ha un decreto di adottabilità o è in attesa di averlo);
  • Ø il 4% circa è in una condizione di presunto abbandono;
  • Ø tutti gli altri accolti (81%) hanno una propria famiglia seppur in grave difficoltà.

 
 
 
Inoltre il bambino nella propria famiglia non è solo, essendoci quasi sempre fratelli e sorelle:
 

  • Ø il 63% dei minori accolti ha fratelli o sorelle;
  • Ø ben il 53% ha 1 o più fratelli o sorelle anch’essi accolti e 1 su 4 proviene da nuclei familiari in cui sono stati allontanati almeno 3 bambini.

 
 
 
La casa-famiglia è una “comunità di tipo familiare con sede nelle civili abitazioni” la cui finalità è l’accoglienza non solo di minori ma anche di disabili, anziani, persone affette da AIDS o con problematiche psico-sociali. Le case-famiglia per minori, in particolare, si occupano (può giovare ripeterlo) dell’accoglienza di questi ultimi “per interventi socio-assistenziali ed educativi integrativi o sostitutivi della famiglia”. Si pongono quindi in alternativa agli orfanotrofi (o istituti) in quanto, a differenza di questi, dovrebbero avere alcune caratteristiche che le renderebbero somiglianti ad una famiglia. In una stessa struttura potrebbero essere accolti anche minori con disagi e difficoltà di diverso tipo.
 
I tratti di maggiore affinità con la famiglia sono i seguenti:
 
–        presenza di figure parentali (materna e paterna) che la eleggono a loro famiglia, facendone la propria casa a tutti gli effetti;
 
–        numero ridotto di persone accolte, per garantire che i rapporti interpersonali siano quelli di una famiglia.
 
La casa inoltre deve avere le caratteristiche architettoniche di una comune abitazione familiare, compatibilmente con le norme eventualmente stabilite dalle autorità sanitarie. Deve inoltre essere radicata nel territorio, il che significa che deve usufruire dei servizi locali (negozi, luoghi di svago, istruzione ecc.) e partecipare alla vita sociale della zona.
 
Ma vediamo nel dettaglio la normativa attuale di riferimento. Le case-famiglia sono regolate dal Decreto 21 maggio 2001 n. 308 della Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento per la Solidarietà Sociale, Regolamento concernente “Requisiti minimi strutturali e organizzativi per l’autorizzazione all’esercizio dei servizi e delle strutture a ciclo residenziale e semiresidenziale, a norma dell’articolo 11 della legge 8 novembre 2000, n. 328”. Il Decreto fu dunque emanato anch’esso, al pari della Legge n. 149 che disciplina l’adizione e l’affidamento dei minori, al tempo del Governo Amato (25.04.2000-11.06.2001) retto dalla coalizione politica: Ulivo-PDCI-UDEUR-INDIPENDENTI e, ancora una volta, fu firmato dal Ministro per la Solidarietà sociale Livia Turco, con il visto del Guardasigilli Piero Fassino.
 
Esso fu redatto tenendo conto della seguente normativa precedente:
 
–        articolo 17, comma 3, della Legge 28 agosto 1998, n. 400;
 
–        Legge 8 novembre 2000, n. 328, recante “Legge-quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali”;
 
–        in particolare gli articoli 9, comma 1, lettera c), e 11, comma 1, della Legge n. 328 del 2000, che prevedono la fissazione dei requisiti minimi strutturali e organizzativi per l’autorizzazione all’esercizio dei servizi e delle strutture a ciclo residenziale e semiresidenziale;
 
–        articolo 8, comma 3, lettera f), della medesima Legge n. 328 del 2000 che prevede che le regioni, sulla base dei requisiti minimi fissati dallo Stato, definiscano i criteri per l’autorizzazione, l’accreditamento e la vigilanza delle strutture e dei servizi a gestione pubblica o dei soggetti di cui all’articolo 1, commi 4 e 5;
 
E inoltre:
 
–        sentita la Conferenza unificata di cui all’articolo 8 del Decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281;
 
–        sentiti i Ministri della Sanità e per gli Affari regionali;
 
–        udito il parere della Sezione consultiva per gli atti normativi del Consiglio di Stato, espresso nell’adunanza del 9 aprile 2001;
 
–        vista la comunicazione al Presidente del Consiglio dei Ministri n. DAS/232/UL/749 dell’8 maggio 2001, a norma dell’articolo 17, comma 3, della Legge 23 agosto 1988, n. 400.
 
 
 
Il Decreto elenca prima di tutto le strutture in oggetto che, come specificato nell’art. 7, sono le seguenti:
 
a) strutture a carattere comunitario
 
b) strutture a prevalente accoglienza alberghiera
 
c) strutture protette
 
d) strutture a ciclo diurno.
 
Le strutture a carattere comunitario sono caratterizzate da bassa intensità assistenziale, bassa e media complessità personale, priva del necessario supporto familiare o per la quale la permanenza nel nucleo familiare sia temporaneamente o definitivamente contrastante con il piano individualizzato di assistenza.
 
Le strutture a prevalente accoglienza alberghiera sono caratterizzate da bassa intensità assistenziale, media e alta complessità organizzativa in relazione al numero di persone ospitate, destinate ad accogliere anziani autosufficienti o parzialmente non autosufficienti.
 
Le strutture protette sono caratterizzate da media intensità assistenziale, media e alta complessità organizzativa, destinate ad accogliere utenza non autosufficiente. Le strutture a ciclo diurno sono caratterizzate da diverso grado di intensità assistenziale in relazione ai bisogni dell’utenza ospitata e possono trovare collocazione all’interno o in collegamento con una delle tipologie di strutture di cui ai commi precedenti.
 
Oltre ai requisiti indicati agli articoli precedenti, le strutture di cui al presente articolo devono possedere i requisiti indicati nell’allegato A al presente decreto quale parte integrante.
 
Nel loro complesso tali strutture, come previsto dall’art. 2 del Decreto, sono rivolte a:
 
a) minori per interventi socio-assistenziali ed educativi integrativi o sostitutivi della famiglia;
 
b) disabili per interventi socio-assistenziali o socio-sanitari finalizzati al mantenimento e al recupero dei livelli di autonomia della persona e al sostegno della famiglia;
 
c) anziani per interventi socio-assistenziali o socio-sanitari, finalizzati al mantenimento e al recupero delle residue capacità di autonomia della persona e al sostegno della famiglia;
 
d) persone affette da AIDS che necessitano di assistenza continua e risultano prive del necessario supporto familiare o per le quali la permanenza nel nucleo familiare sia temporaneamente o definitivamente impossibile o contrastante con il progetto individuale;
 
e) persone con problematiche psico-sociali che necessitano di assistenza continua e risultano prive del necessario supporto familiare o per le quali la permanenza nel nucleo familiare sia temporaneamente o definitivamente impossibile o contrastante con il progetto individuale.
 
Oggetto e finalità del Decreto è quindi quello – previsto all’articolo 1comma 1 – di fissare “i requisiti minimi strutturali e organizzativi per l’autorizzazione all’esercizio” di tali strutture e dei servizi da loro offerti.
 
Per le comunità familiari con sede nelle civili abitazioni (le cosiddette “case-famiglia”) il Decreto prevede inoltre dei “requisiti specifici”. Le case-famiglia necessitano dunque, ai sensi di legge, di una “doppia garanzia”: quella di base, comune a tutte le strutture, e quella specifica, riferita ad esse soltanto. Esiste, in sintesi, un sistema di “doppia tutela” degli utenti. Ciò significa che la legge era perfettamente consapevole che fosse indispensabile, di conseguenza, anche un “doppio controllo”, essendo “doppi” i rischi e i danni in cui sarebbero potuti incorrere gli utilizzatori di servizi e strutture di casa-famiglia
 
Ma chi è, nel concreto, che deve verificare ed eventualmente integrare i requisiti minimi fissati dalla legge e i requisiti specifici appositamente previsti? Chi è, in poche parole, che deve esercitare codesta “doppia tutela”, assumendo la posizione giuridica di “doppia garanzia”?
 
Sono le Regioni. Lo specifica il c. 2 dell’art. 2: “Ai sensi dell’articolo 11, comma 2, della legge n. 328 del 2000, le regioni recepiscono e integrano, in relazione alle esigenze locali, i requisiti minimi fissati dal presente decreto, individuando, se del caso, le condizioni in base alle quali le strutture sono considerate di nuova istituzione e le modalità e i termini entro cui prevedere, anche in regime di deroga, l’adeguamento ai requisiti per le strutture già operanti”.
 
Sono quindi le singole Regioni che – previa verifica dei requisiti minimi fissati dalla legge nazionale – devono controllare di propria iniziativa e sotto la propria responsabilità le case-famiglia già esistenti e autorizzare l’eventuale apertura delle nuove. Le case-famiglia per minori, infatti, devono soddisfare anche requisiti organizzativi, in questo caso non “standard” ma stabiliti dalle singole Regioni di appartenenza.
 
Ciò viene ulteriormente specificato negli artt. 3 e 4. Nell’art. 3 (“Strutture di tipo familiare e comunità di accoglienza di minori”) si precisa che “le comunità di tipo familiare (…) accolgono fino ad un massimo di sei utenti (…) minori o adolescenti (…)” e “devono possedere i requisiti strutturali previsti per gli alloggi destinati a civile abitazione”. Lo stesso art. 3 precisa però che “per le comunità che accolgono minori, gli specifici requisiti organizzativi, adeguati alle necessità educativo-assistenziali dei bambini e degli adolescenti, sono stabiliti dalle Regioni”. E, fra i criteri organizzativi, le Regioni possono stabilire anche accorpamenti tra più comunità.
 
È proprio vero, però, che sono le Regioni a verificare ogni singola casa-famiglia? Niente affatto… perché a verificare, a decidere, ad autorizzare sono i Comuni.
 
 
 
 
 

Avv. Francesco Miraglia

 

Presunti maltrattamenti L'avvocato Miraglia risponde a Flavio Amico

Non è certamente mia intenzione scendere in una disputa personale con il Sig. Flavio Amico, che tra l’altro non ho mai conosciuto.
Ma è opportuno precisare che sul mio conto ci sono solo cronache giornalistiche che lasciano il tempo che trovano e che, sopratutto, non trovano alcun riscontro nel mio casellario penale. È pacifico che, a sfatare ogni dubbio, sono pronto a renderlo pubblico in ogni momento.
Mi chiedo: il Sig. Flavio Amico è altrettanto pronto a pubblicare il suo casellario?
Al contrario di quest’ultimo, infatti, il sottoscritto non ha mai riportato alcun tipo di condanna né per calunnia né per altro qualsivoglia tipo di reato.
Per quanto riguarda l’asserita (mia) difesa legale ad un “pedofilo reggino”, mi preme ricordare al Sig. Amico che sono un avvocato, il cui dovere è quello di garantire la difesa tecnica a qualsiasi persona e che, in ogni modo, personalmente,quando assumo una difesa l febbrao a faccio con convinzione di innocenza del mio assistito,e comunque ho rinunciato al mandato ben prima che il mio assistito fosse raggiunto da una sentenza di condanna in primo grado.
 
E’ inoltre doveroso precisare al Sig. Flavio Amico che il sottoscritto non rappresenta e appartiene ad alcuna associazione, e tanto meno lo stesso vuole atteggiarsi a “paladino dei minori”, ma si limita, a rispondere al mandato conferito dai propri assistiti.
Ritengo a questo punto, che sia alquanto indicativo, rispetto alla veridicità di quanto pubblicato dalla Gazzetta di Parma, l’intervento del Sig. Amico, diretto principalmente a cercare di screditare la mia persona e la mia professionalità, oltre che a giustificare i fatti attribuitigli.

MALTRATTAMENTI IN CASA FAMIGLIA A FIDENZA , VECCHI (PDL) CHIEDE SPIEGAZIONI ALLA REGIONE

 
Com’è possibile che un imputato dei reati di maltrattamento di minori e abuso di mezzi di correzione gestisca una “casa famiglia” nonostante, se non è un caso di omonimia, abbia un passato da brigatista coinvolto nel sequestro Moro e sulle spalle altre condanne per reati contro la persona e una condanna a 18 anni per associazione sovversiva?
Se lo è chiesto il consigliere regionale del PdL Alberto Vecchi, vicepresidente della Commissione Politiche per la Salute e Politiche Sociali della Regione Emilia-Romagna, che in un’interrogazione indirizzata alla giunta Errani ha chiesto che venga chiarita, al più presto, la posizione di Flavio Amico che, insieme alla moglie Margherita Fortisi, gestisce a Fidenza una “casa famiglia” legata all’Associazione onlus “We are here – Noi siamo qui”.
Flavio Amico risulta, infatti,  imputato in un processo davanti al Tribunale di Parma, sede distaccata di Fidenza, per i reati di maltrattamento di minori e abuso di mezzi di correzione a seguito di una denuncia di un educatore in servizio nella “casa famiglia” relativa a due distinti episodi avvenuti nel 2008 e nel 2009, ai danni di due ragazzi allora ospiti della comunità gestita dai coniugi Amico.
“Nonostante il processo a carico – scrive Vecchi – FlavioAmico ha continuato a gestire la comunità familiare a Fidenza e a lavorare come educatore anche nella comunità educativa per minori Ca’ degli Angeli di Tabiano Terme, aperta nel 2009 e recentemente trasferita all’interno di una struttura di accoglienza più ampia, Casa Viburno, nata lo scorso anno sempre per manodell’Associazione “We are here – Noi siamo qui”, di cui la moglie Emanuela Fortisi, è presidente”.
Ma ci sarebbe anche dell’altro. Secondo l’avvocato Francesco Miraglia, legale rappresentante dei genitori di un ragazzino ospitato nel 2010 nella comunità Cà degli Angeli di Tabiano e autore del libro sui diritti violati dell’infanzia “Mai più un bambino”, Flavio Amico avrebbe un passato da brigatista e sarebbe stato coinvolto nel sequestro Moro e per questo condannato a 18 anni di carcere per associazione sovversiva.
“In una lettera molto circostanziata – spiega Vecchi –  l’avvocato Miraglia riporta che nel 1978 Flavio Amico era stato arrestato insieme ad altri esponenti delle Brigate Rosse in via Montenevoso 8, a Milano, nella cosiddetta “prigione del popolo” e, al momento dell’arresto, si era dichiarato “combattente comunista” e, in un’altra occasione, “prigioniero di guerra”. Per il suo coinvolgimento nel sequestro Moro, per la sua appartenenza alla colonna brigatista “Walter Alasia”, che si autodefiniva “irriducibile”, fu condannato a 18 anni di carcere per associazione sovversiva”.
Inoltre risulterebbe che dal 1978 al 1998 Flavio Amico avrebbe collezionato altre condanne, alcune delle quali anche per reati contro la persona, tant’è che sulla sua vicenda personale pare che il Garante perl’infanzia e l’adolescenza, organo istituito nel 2011 presso la Regione Emilia-Romagna, stia compiendo verifiche e accertamenti.
“Saremmo curiosi di sapere – conclude Vecchi – se la Giunta regionale sia o meno a conoscenza di questa vicenda; a meno che non si tratti di un caso di omonimia, come sia stato possibile per Flavio Amico, data la gravità dei precedenti giudiziari, ottenere l’autorizzazione all’apertura e al funzionamento di una “casa famiglia”, usufruire di fondi pubblici, ed occuparsi, come educatore, di minori giá provati da situazioni famigliari particolari; come sia stato possibile, date le denunce e il processo in corso, che le istituzioni preposte al controllo della“casa famiglia” non abbiano attivato le necessarie verifiche e non abbiano sospeso cautelativamente dall’attività Flavio Amico; se la Giunta regionale non ritenga doveroso disporre un immediato controllo sulla “casa famiglia” in questione”.
 

“MAI PIU’ UN BAMBINO”: un incontro, un libro e una petizione per denunciare i maltrattamenti subiti dai bambini nelle case famiglia e l’importanza della genitorialità

 
 

COMUNICATO STAMPA

 

“MAI PIU’ UN BAMBINO”: un incontro, un libro e una petizione per denunciare i maltrattamenti subiti dai bambini nelle case famiglia e l’importanza della genitorialità

 
 
 
La difesa dei diritti negati ai bambini non ha confini né spazi definiti. E’ importante che la gente comune, le autorità, le persone che lavorano in questi ambiti sappiano cosa avviene oggi in alcune case famiglie e che le strutture che presentano evidenti carenze igienico-sanitarie, ma non solo, vengano denunciate alle autorità competenti. Ne va della felicità di questi futuri adulti”. Con questo intento, Francesco Miraglia, Avvocato del Foro di Modena, Cassazionista ed Esperto in Diritto di Famiglia e Minorile, interverrà, il prossimo 17 febbraio, al Convegno “Mai più un bambino, solo, abusato, istituzionalizzato” durante il quale interverranno anche l’Onorevole Antonio Guidi, Neuropsichiatra infantile e già Ministro della Famiglia, Francesco Morcavallo, Giudice del Tribunale per i minorenni di Bologna, Sonia Gradilone, Avvocato e Responsabile per il Sud Italia del Servizio Polifunzionale Adozioni Internazionali, Vincenza Palmieri, psicologa e Presidente dell’Istituto Nazionale di Pedagogia Familiare (INPEF), Antonella Flati, Presidente di Pronto Soccorso Famiglia. Il tutto sarà coordinato dal giornalista Saverio Paletta.
 
Oggetto dell’incontro, che si terrà a partire dalle ore 17 presso il Museo del Presente, piazzale John Fitzgerald Kennedy a Rende (Cosenza), il bambino e il suo ruolo all’interno della famiglia e non solo. Si rifletterà sulle problematiche e le relazioni tra genitori e figli, sull’importanza di altre figure parentali come ad esempio quella dei nonni, verrà sottolineato come sia fondamentale, prima di intervenire in modo drastico, che la famiglia possa essere aiutata da figure di supporto quali ad esempio quella del pedagogista familiare. Inoltre si parlerà dell’allontanamento e dell’inserimento dei minori in strutture specifiche, quali ad esempio le case famiglia, mettendo in evidenza l’attuale realtà italiana (verranno forniti dati specifici) e come questi centri, se mal gestiti e non controllati debitamente, possano danneggiare seriamente lo sviluppo psichico e fisico del minore.
 
Contenuti e tematiche che proprio l’Avvocato Miraglia, l’Onorevole Guidi e la Prof.ssa Palmieri hanno raccolto nel libro “Mai più un bambino”, (Armando Editore, 2013) presentato lo scorso 31 gennaio presso il Senato della Repubblica e che contiene al suo interno anche una petizione, che verrà portata e fatta conoscere in tutta Italia, dove si chiede in modo esplicito alle Istituzioni di fare qualche cosa di tangibile per i bambini, affinché  “Mai più un bambino sia abusato, abbandonato, sottratto alla sua famiglia, drogato, violentato, sottoposto ad accanimento diagnostico e terapeutico, mercificato, legato”.
 
 

Fidenza – Gestisce una casa famiglia: accusato di maltrattamenti. E' un ex Br

Fidenza – Gestisce una casa famiglia: accusato di maltrattamenti. E’ un ex Br
Una comunità familiare che accoglie minori in difficoltà. Una «casa famiglia» dove bambini e adolescenti, allontanati da genitori giudicati inadeguati ad occuparsi di loro, dovrebbero ritrovare un ambiente sereno per ricostruire il loro equilibrio. Proprio in una di queste strutture, nata nel 2004 nella periferia di Fidenza, sarebbero avvenuti i fatti di cui è accusato Flavio Amico, che gestisce insieme alla moglie Margherita Fortisi la comunità legata all’associazione onlus «We are here – Noi siamo qui». Flavio Amico, nato a Caltanissetta nel ’55, è imputato dei reati di maltrattamento di minori e abuso di mezzi di correzione in un processo in corso nel Tribunale di Parma sede distaccata di Fidenza. La denuncia, sporta da un educatore che all’epoca dei fatti lavorava nella struttura fidentina, si riferisce a due episodi, uno avvenuto nel 2008 e uno nel 2009, ai danni di due ragazzi allora ospiti dalla comunità gestita dai coniugi Amico. Le prossima udienza del processo, la quarta, è prevista per venerdì prossimo. Nel frattempo Flavio Amico continua a gestire la comunità familiare a Fidenza e inoltre lavora come educatore anche nella comunità educativa per minori Cà degli Angeli di Tabiano, aperta nel 2009 e recentemente trasferita all’interno di una struttura di accoglienza più ampia, Casa Viburno, nata lo scorso anno sempre per mano dell’associazione «Noi siamo qui», di cui la moglie di Amico, Emanuela Fortisi, è presidente. Ma ora si aggiunge un’altra notizia inquietante sulla figura di Flavio Amico: un passato da brigatista. L’educatore di minori in difficoltà sarebbe infatti stato coinvolto nel sequestro Moro e per questo condannato a 18 anni di carcere per associazione sovversiva. Lo segnala in una lettera molto dettagliata (indirizzata, oltre che alla Gazzetta e al diretto interessato Flavio Amico, al Garante per l’infanzia, all’assessore regionale alle Politiche sociali, al presidente della Regione e al ministro Elsa Fornero) l’avvocato Francesco Miraglia, autore del libro sui diritti violati dell’infanzia «Mai più un bambino» e legale rappresentante dei genitori di un ragazzino ospitato nel 2010 nella comunità Cà degli Angeli di Tabiano. Nella lettera si afferma che «nel ’78 Flavio Amico era stato arrestato insieme ad altri esponenti delle Brigate Rosse in via Montenevoso 8, a Milano, nella cosiddetta “prigione del popolo”. Al momento dell’arresto Amico si dichiarava “combattente comunista” e, in un’altra occasione, “prigioniero di guerra”. Risulta inoltre che per il suo coinvolgimento nel sequestro Moro Flavio Amico, appartenente alla colonna «Walter Alasia», che si autodefiniva “irriducibile”, fu condannato a 18 anni di carcere per associazione sovversiva». «Dal ’78 al ’98 Flavio Amico risulta inoltre aver collezionato numerose condanne – continua la lettera – anche per reati contro la persona, e ora sta subendo un processo a Fidenza (Pr) dove figura imputato con l’accusa di maltrattamenti di minori». Dopo questa premessa, l’avvocato Miraglia si rivolge agli organi e agli enti preposti a vigilare sul buon funzionamento delle strutture di accoglienza per minori, dichiarando che «sia io che il mio assistito auspichiamo si tratti di un caso di omonimia. In caso contrario sarebbe gravissimo che un ex brigatista, oltre ad usufruire di fondi pubblici, si occupi, come educatore, di minori già provati da situazioni famigliari particolari». Anche durante la presentazione del suo libro al Senato della Repubblica il 31 gennaio scorso, Miraglia aveva citato la singolare vicenda della comunità come caso emblematico del cattivo funzionamento degli enti controllori. La richiesta di fare chiarezza su questa complessa vicenda è approdata dunque anche sul tavolo del dottor Luigi Fadiga, Garante per l’infanzia e l’adolescenza, organo istituito nel 2011 presso la Regione Emilia Romagna con il compito di individuare e attivare tutte le competenze che riguardano i minori e che devono garantirne i diritti. Ed è quello che il dottor Fadiga si appresta a fare, come ci ha confermato al telefono, con l’apertura di un fascicolo sul caso.

IL CASO DELLE DUE BAMBINE DI TRENTO CHE VOGLIONO STARE CON LA LORO MAMMA APPRODA A CANALE 5

Il 17 gennaio alle ore 9 la mamma di Maria e Giulia insieme all’avvocato Francesco Miraglia saranno ospiti della trasmissione Mattino Cinque condotta da Paolo Del Debbio
 
Non sono cadute nel vuoto le parole di due bambine di Levico Terme che, per Natale, chiedevano al Giudice di Trento di poter restare più tempo accanto alla loro mamma. Non almeno per i giornali, le tv e le radio che hanno ripreso la notizia e che hanno voluto farsi portavoce del loro messaggio.
Una storia che ha toccato il cuore di molti e che anche Mediaset ha deciso di raccontare ai suoi telespettatori all’interno dl programma Mattino Cinque. Sarà infatti Paolo Del Debbio, giornalista e conduttore conosciuto anche per la trasmissione Quinta Colonna, ad intervistare negli studi di Cologno Monzese, la madre di Maria e Giulia e l’avvocato Francesco Miraglia del Foro di Modena, a cui è stato affidata la causa.
La vicenda ha inizio nel marzo del 2010 quando le due minorenni vengono affidate ai servizi sociali della “Comunità Valsugana e Tesino” e “collocate” presso la residenza del padre. La madre ogni settimana può vederle per alcune ore. Il tutto avviene regolarmente fino allo scorso 14 dicembre, quando la piccola Maria, 12 anni, chiede con insistenza alla mamma di poter stare a casa con lei. Quest’ultima espone la questione ai Servizi sociali che decidono di concederle quanto richiesto, malgrado l’assistente di riferimento, R.A. sia in ferie. Ma dopo poche ore gli stessi Servizi sociali decidono di sospendere le telefonate e gli incontri tra la madre e le figlie. Una situazione delicata che genera sofferenza tanto da spingere Maria, già qualche giorno prima, a scrivere una lettera direttamente al Giudice di Trento. Lettera nella quale si sottolineava: “…Visto che dopo tre anni le cose sono cambiate ben poco e non nella maniera desiderata vorrei chiederle se per Santa Lucia o per Natale al posto dei regali ci potrebbe portare un aumento delle ore con la mamma e di poter stare metà tempo con la mamma e metà con il papà. Speriamo che accolga la nostra richiesta anche perché non abbiamo mai capito il motivo del poco tempo che possiamo passare con la mamma. Con lei ci divertiamo tanto e facciamo belle attività (découpage, lavoretti…)”.
La situazione si complica lo stesso giorno quando R.A. rientrata dalle ferie parla al telefono con Maria minacciandola, sembrerebbe, con tali parole: “O torni a casa con il papà o io devo prendere la decisione di metterti in collegio. Il giudice sapendo questa cosa fa del male a te, alla Giulia e alla mamma… Allora vuoi andare in un istituto che sarebbe un luogo alternativo al carcere e non vedere più la mamma…” oltre a offendere la madre stessa. Telefonata che viene comunque messa in viva voce e sentita anche dalle Forze dell’Ordine presenti e che ha spinto la madre a denunciare nelle sedi opportune l’assistente sociale R.A.
La decisione di partecipare alla trasmissione televisiva – spiega l’avvocato Francesco Miraglia – nasce dal desiderio di denunciare pubblicamente una situazione che non può continuare ancora a lungo e che in qualche modo rispecchia ciò che succede in molte altre famiglie all’interno del nostro Paese. Processi, procedimenti, denunce che spesso cadono nel vuoto o che vengono risolti in tempi lunghissimi a discapito, va sottolineato, soprattutto dei bambini e di conseguenza anche dell’intero dell’apparato familiare”.
 
 
 
 

 

“Come regalo di Natale vogliamo stare più tempo con la mamma”.

Trento, 24 dicembre 2012. – di Nadia Milliery Ognibene
“Come regalo di Natale vogliamo stare più tempo con la mamma”. Questa la richiesta al Giudice di due bambine di Trento affidate ai Servizi sociali. “Non abbiamo mai capito il motivo del poco tempo che possiamo passare con la mamma.” Anche le parole di un minore hanno il loro peso, andrebbero comprese e ascoltate. Non è così, ormai, da tempo, per due bambine di Levico Terme, in provincia di Trento “contese” dai genitori e che, da marzo 2010, sono state affidate ai Servizi sociali della “Comunità Valsugana e Tesino” e “collocate” presso la residenza del padre.
Una situazione che con il tempo è andata peggiorando e che lo scorso 14 dicembre ha portato la madre, C.D.,a depositare una querela presso la Procura di Trento, nei confronti di R.A., l’assistente sociale che segue il loro caso, per minacce, violenza privata e diffamazione, dopo che una delle figlie, che chiameremo Maria, di 12 anni, si era rifiutata di tornare a casa dal padre.
Ma veniamo ai fatti. Lo scorso 7 dicembre, Maria chiede alla madre di poter rimanere a casa con lei. A nulla servono le insistenze dei genitori stessi e dell’educatrice presente per farle cambiare idea; così la bambina, in accordo con i servizi sociali, riamane a casa della madre.
Dopo 3 giorni, la donna si presenta presso i Servizi sociali ma l’assistente sociale di riferimento, R.A. è in ferie. La sostituta stabilisce che malgrado l’accaduto, tutto sia regolare e che entrambe le bambine possono continuare ad incontrare la madre, per 7 ore a settimana, come erano solite fare. Ma dopo poche ore, arriva, inaspettato, il contrordine. R.A., infatti, decide non solo di sospendere gli incontri ma anche le telefonate tra la madre e le figlie.
Una decisione non condivisa dalla piccola Maria che si impunta e vuole essere ascoltata. Richiesta, che pochi giorni prima aveva espresso anche per scritto, mandando una lettera al Giudice che segue la vicenda, e nella quale diceva: “Caro Signor Giudice, è da tanto tempo che diciamo a papà, mamma, psicologi, assistenti sociali, educatori…che vorremmo stare più tempo con la mamma. Così visto che dopo tre anni le cose sono cambiate ben poco e non nella maniera desiderata vorrei chiederle se per Santa Lucia o per Natale al posto dei regali ci potrebbe portare un aumento delle ore con la mamma e di poter stare metà tempo con la mamma e metà con il papà. Speriamo che accolga la nostra richiesta anche perché non abbiamo mai capito il motivo del poco tempo che possiamo passare con la mamma. Con lei ci divertiamo tanto e facciamo belle attività (découpage, lavoretti…)”.
Parole cadute nel vuoto ma che Maria ha voluto ribadire il 10 settembre quando, seguendo le istruzioni dei Servizi sociali, il padre è andato a riprenderla a casa della mamma, con metodi, a detta di quest’ultima “autoritari e ricattatori” e che, pertanto, hanno condotto D.C. a chiamare le forze dell’ordine,”per cercare di risolvere la situazione” visto che Maria, che già in mattinata aveva avuto un leggero malore, si stava nuovamente sentendo male.
Alla presenza delle Autorità, davanti al padre e alla madre, Maria ha chiamato l’assistente sociale R.A che in quel frangente, inconsapevole che il telefono fosse in viva voce, l’avrebbe minacciata con le seguenti parole: “O torni a casa con il papà o io devo prendere la decisione di metterti in collegio. Il giudice sapendo questa cosa fa del male a te, alla Giulia e alla mamma. …Allora vuoi andare in un istituto che sarebbe un luogo alternativo al carcere e non vedere più la mamma…” oltre a offendere la madre stessa.
“Invece di aiutare una bambina che chiede semplicemente di essere ascoltata – sottolinea il legale della madre, l’avvocato Francesco Miraglia del Foro di Modena – assistiamo increduli ad una presa di posizione di un adulto, in questo caso l’assistente sociale, che invece di aiutare questa bambina, la minaccia, la mette in difficoltà, non svolgendo quindi il compito che invece dovrebbe avere cioè quello di aiutarla, sostenerla. E’ evidente che Maria richiedeva semplicemente di vivere in un clima sereno come d’altronde ribadiva nella lettera inviata al giudice nella quale affermava: “Ci manca tanto la mamma anche se stiamo bene con il papà, ci piacerebbe avere dei genitori normali come tutti senza dover stare sempre negli orari. Ogni tanto ci arrabbiamo con l’assistente sociale, lei, perché non ci sembra di essere ascoltate. Per questi motivi vorremmo chiedere di incontrarla e di poter parlarne a voce. Grazie, per aver letto questa lettera a presto””.

La lettera della mamma di Anna Giulia, bambina strappata alla famiglia per l’arroganza degli adulti

C’è una bambina di 7 anni che non passerà il Natale con i genitori, non scarterà i regali sotto l’albero addobbato di casa sua e non riceverà l’abbraccio dei nonni e degli altri familiari. Chissà dove e con chi sarà, e non sappiamo neppure se le imminenti feste riaccenderanno in lei i ricordi sopiti, e certamente sempre più sbiaditi, della sua primissima infanzia. Eppure questa bimba non è orfana. Ha due giovani genitori che l’amano e che da sempre si battono per riaverla con loro. Stella, così la chiamiamo per proteggere la sua identità, è vittima di un errore, un colossale errore che l’ha strappata ai suoi affetti più cari quando aveva soltanto 3 anni.

La storia è nota ai più: una telefonata anonima avverte che nella casa dove vivono i Gilda e Massimiliano con la loro figlia, c’è della droga. Un blitz notturno dei carabinieri sveglia la famiglia, viene effettuata una perquisizione, ma non viene trovato assolutamente nulla. Solo che intanto, un militare troppo solerte avverte i servizi sociali dicendo che l’abitazione è fatiscente e non è un luogo adatto per una minore. Peccato che si dimentichi di specificare che la casa era a soqquadro perché stavano ridipingendo le pareti. Stella viene portata via dai genitori, che però sono rassicurati dagli assistenti sociali: “è sicuramente un equivoco, fra 15 giorni la riavrete”. Cominciano così gli incontri protetti tra genitori e figlia, perché qualcuno nel frattempo si è ricordato che il papà in passato ha fatto uso di droghe. Peccato che, ancora una volta, ci si dimentichi di spiegare che si tratta di episodi remoti, accaduti 20 anni prima. Alla coppia però, nonostante venga riconosciuta “una genitorialità ricca e affettiva”, la figlia non viene restituita, anzi Stella finisce in un istituto. Dopo varie peripezie giudiziarie, Gilda e Massimiliano decidono di “rapire” la loro bambina e di fuggire con la piccola in Slovenia, dove trascorrono alcuni giorni felici. Poi, convinti dalla nonna paterna, ritornano, affidandosi alla comprensione di chi ha in mano il loro destino. Ma è una fiducia mal riposta perché da allora questi genitori non hanno più rivisto la loro piccina…

Tutti la chiamano Stella e speriamo che una stella arrivi davvero ad illuminare la notte di Gilda e Massimiliano, una notte che dura da quasi 5 anni. Ed ecco la lettera che Gilda ci inviato, una lettera disperata, ma anche di speranza.

E’ grande lo sforzo di rivivere ancora e ancora ormai quasi all’infinito, quelle strazianti emozioni che mi sono entrate, ormai, in ogni singola cellula e con le quali devo convivere quasi fosse una malattia… un dolore cronico dal quale non riesco, non posso, non voglio liberarmi.
Eh sì…. questo sordo male che mi accompagna è ormai l’unica cosa che mi tiene legata a lei… che mi fa essere ancora la mamma di “Stella”, già l’unico modo che mi è rimasto di essere mamma è il dolore puro di questo vuoto che non riesco a motivare a giustificare e di conseguenza non riesco ad elaborare… come si dice, non riesco a farmene una ragione: cerco di analizzare la situazione da ogni punto di vista e quindi mi ripeto all’infinito…. morta non è, e quindi devo essere contenta… male non starà quindi devo esserne contenta…. colpa mia e di Max di certo non è, e quindi devo esserne contenta… la storia è stata più e più volte verificata da tante persone competenti e tutti mi hanno manifestato la loro solidarietà e… quindi devo esserne contenta… ho fatto tutto quanto è stato in mio potere fare e anche di più…. e quindi devo esserne contenta… devo essere grata a quei cari amici e conoscenti che mi si stringono accanto e solidali mi chiedono “come va”… devo esserne contenta, non è da tutti di poter contare sull’affetto di tante persone… devo esserne contenta. Ma così non è; non sarò, non saremo mai contenti, fino a quando non potremo riabbracciare la nostra bambina. Rivoglio, rivogliamo nostra figlia, la nostra vita. Gilda.

Miraglia denuncia 'In comunità circolano droga e alcol'

Trento, 30 luglio 2012.  – Nella comunità in cui sono ospitati anche giovani trentini circolano droga e alcol e gli educatori portano i ragazzi a comprare la droga, per questo, oggi l’avvocato Francesco Miraglia del foro di Modena ha presentato due esposti alla procura di Chieti per le gravi irregolarità segnalate da alcuni adolescenti che erano stati ospitati presso la cooperativa Lilium, un centro di cura per minori con gravi disturbi psichiatrici di S. Giovanni Teatino, Chieti, che ospita anche minori trentini.
Secondo la denuncia dell’avvocato le segnalazioni ricevute in merito alla circolazione di droghe e alcool nella comunità sono state purtroppo confermate da un ragazzo di Padova. Nella relazione del dott. Paolo Cioni si afferma che il ragazzo ha dei ricordi e dei vissuti estremamente negativi sulla comunità terapeutica di Chieti: “In particolare riferisce che «circolavano droga e alcool. Gli educatori ci portavano a comprarla al Parco Florida, vicino a Pescara». In particolare cita un educatore […] che sarebbe stato il referente di questo meccanismo.”
Recentemente la comunità era salita all’onore delle cronache per il caso di una ragazza di Trento trattenuta in struttura contro la sua volontà nonostante avesse subito un assalto sessuale da parte di un infermiere della struttura. La vicenda, assieme ad altre segnalazioni, era stata presentata alla Commissione parlamentare per l’infanzia e l’adolescenza presieduta dall’onorevole Alessandra Mussolini. In seguito la ragazza era stata liberata, ma la comunità invece di ammettere le proprie responsabilità aveva diffuso una nota giustificativa (pubblicata anche su Internet) che i genitori avevano poi pubblicamente smentito. Ma in questa nota la comunità stessa ammetteva di non aver sporto una formale denuncia affermando di “aver svolto repentinamente indagini interne, per appurare quello che realmente era accaduto, coinvolgendo anche i carabinieri e invitando la ragazza stessa a sporgere denuncia, cosa che, però, la minore si è rifiutata di fare”.
E purtroppo queste non sono le uniche irregolarità segnalate sulla struttura di Chieti. La minore stessa e altri ospiti hanno scritto di ragazzi e ragazze legati ai letti e chiusi in stanza per ore, di una prassi secondo la quale nei primi tre mesi si vieta agli ospiti qualsiasi contatto con l’esterno, di problemi di sicurezza con ragazzi che si scambiano gli psicofarmaci, di condizioni insopportabili che spingono i ragazzi a tentare la fuga con parecchie fughe occorse anche nel periodo di permanenza della minore (lei stessa è fuggita ed è stata ripresa più volte) e di droghe circolanti nella struttura. Queste segnalazioni sono state confermate con messaggi email, commenti su Facebook e dichiarazioni scritte raccolte dalla mamma della minore, dal Comitato dei Cittadini per i Diritti Umani e dall’associazione Pronto Soccorso Famiglia.
La Lilium non è la prima comunità a finire nell’occhio del ciclone. Ricordiamo la comunità alloggio per minori «Dina Sergiacomi» di Montalto nelle Marche, la comunità «Cavanà» di Pellegrino Parmense, la casa famiglia «Il Forteto» in Toscana. Il denominatore comune di queste comunità, oltre alla “impostazione manicomiale”, è la mancanza di reali controlli esterni e indipendenti che impediscano queste violazioni. Purtroppo ci giungono segnalazioni di madri preoccupate perché una specifica psichiatra del centro di neuropsichiatria infantile di Trento (che recentemente è stata segnalata all’ordine) sta premendo per mandare i loro figli in questa comunità e persino dei ragazzi che sono fuggiti dalla comunità stanno ricevendo pressioni per tornarci. Il proverbio dice: “Quando il gatto non c’è i topi ballano”. Riteniamo sia indispensabile che l’assessorato competente investighi approfonditamente per verificare le accuse e se necessario riportare i nostri ragazzi a casa per impedire che subiscano altri danni.