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Il ritorno di Luca: quando il sostegno preventivo può evitare allontanamenti ingiustificati

 

Il Tribunale per i Minorenni di Caltanissetta ha autorizzato il rientro del piccolo Luca, nome di fantasia, presso l’abitazione dei nonni materni, ponendo fine a un periodo in cui sia lui che la sua mamma erano stati collocati in una casa famiglia. La decisione è il risultato di un lungo percorso di valutazione che ha coinvolto esperti, psicologi e assistenti sociali e che ha avuto come obiettivo principale il benessere del minore e la ricostruzione di un ambiente familiare adeguato. Tuttavia, la vicenda solleva importanti interrogativi sull’efficacia delle politiche di tutela dei minori e sull’urgenza di adottare interventi tempestivi per prevenire situazioni di allontanamento che spesso risultano evitabili. La madre di Luca, nonostante le difficoltà personali, ha sempre mantenuto un legame affettivo forte con il figlio. Questo aspetto, riconosciuto dal Tribunale, avrebbe potuto essere valorizzato sin dall’inizio attraverso un sostegno concreto che evitasse il collocamento della diade in una struttura esterna. I nonni materni, oggi riconosciuti come risorsa preziosa e disponibili ad accogliere Luca nella loro casa, rappresentano una soluzione che avrebbe potuto essere presa in considerazione già in una fase iniziale. La decisione di ricorrere al collocamento in casa famiglia ha avuto un impatto emotivo significativo, non solo sul bambino ma anche sulla madre, e mette in evidenza la necessità di un sistema di supporto più efficace. L’avvocato  Miraglia, legale della madre, ha accolto con soddisfazione il provvedimento del Tribunale, ma ha anche invitato a riflettere sull’intero approccio del sistema di welfare nei confronti delle famiglie in difficoltà. “Questa decisione rappresenta un passo importante per Luca e la sua mamma, ma solleva un tema cruciale: se si fosse intervenuti con un supporto adeguato e tempestivo, si sarebbe potuta evitare una separazione lunga e dolorosa”, ha dichiarato. “Le case famiglia e i collocamenti in comunità devono rappresentare l’ultima istanza, da adottare solo quando ogni altra possibilità è stata esaurita. È necessario che il sistema di tutela dei minori si concentri maggiormente sul rafforzamento delle famiglie, offrendo loro strumenti di sostegno per superare le difficoltà senza compromettere i legami fondamentali tra genitori e figli”.  Questa vicenda porta a riflettere sul ruolo cruciale delle istituzioni e dei servizi sociali. Il collocamento in casa famiglia, pur giustificato dalla volontà di proteggere il minore, evidenzia i limiti di un sistema che spesso interviene in modo reattivo, piuttosto che preventivo. Investire nella prevenzione significa creare reti di supporto più solide e attivare risorse familiari prima che si giunga a decisioni drastiche. Il potenziamento dei servizi sociali, con personale adeguatamente formato e protocolli operativi chiari, è essenziale per garantire interventi mirati e tempestivi. Una maggiore collaborazione tra istituzioni e famiglie, insieme alla valorizzazione delle figure familiari di supporto, come i nonni in questo caso, potrebbe evitare che molte situazioni si trasformino in separazioni traumatiche e dolorose. Il rientro di Luca presso l’abitazione dei nonni materni non è solo un traguardo per il minore e sua madre, ma rappresenta anche un’opportunità per ripensare le politiche sociali e giudiziarie. Mantenere il bambino all’interno del suo contesto familiare, quando possibile, non è solo un diritto del minore, ma anche un dovere delle istituzioni che devono fare tutto il possibile per garantire stabilità, affetto e continuità nelle relazioni familiari. Come dimostra questa vicenda, un intervento più tempestivo e meno invasivo avrebbe potuto evitare una sofferenza inutile e rafforzare il nucleo familiare fin dall’inizio. Questa vicenda deve servire come monito e spunto per migliorare le pratiche di tutela dei minori. Un sistema che privilegi il sostegno alla famiglia come primo passo, anziché come soluzione tardiva, può prevenire traumi evitabili e garantire un futuro migliore per i bambini e i loro genitori. Il caso di Luca è emblematico di come sia possibile fare di più e meglio, lavorando per un sistema che metta al centro la prevenzione, il rispetto dei legami familiari e il benessere dei minori, evitando scelte drastiche che, come in questo caso, si sarebbero potute prevenire.

 

Ritorno a casa: una decisione del Tribunale segna la fine di un lungo periodo di separazione

(Caltanisetta 15 novembre 2024) Finalmente, dopo un lungo e difficile periodo trascorso in comunità, la mamma e il suo bambino sono tornati a casa. Un passo importante per la loro serenità, dopo tanto dolore e separazione. Il Tribunale per i Minorenni di Caltanissetta ha restituito loro la dignità e la speranza di un futuro insieme, nonostante le difficoltà. La giustizia, pur con le sue complessità, ha dato loro la possibilità di ricominciare.

Roma: mamma sinti tredicenne potrà riavere la bambina

La Corte d’Appello annulla la sentenza di adottabilità

ROMA (24 ottobre 2024). Sentenza annullata: la tredicenne sinti potrà riavere la sua bimba, che le era stata tolta appena nata per essere dichiarata adottabile. La Corte di Appello di Roma ha accolto il ricorso presentato dalla famiglia della ragazzina, tramite l’avvocato Miraglia: nessuno era stato informato della dichiarazione di adottabilità della piccola e soprattutto alla giovane mamma non è stata offerta la possibilità – prevista per legge – di riconoscere la figlia, una volta raggiunti i 16 anni di età.

«Una bella vittoria – dichiara l’avvocato Miraglia, che annuncia –: abbiamo denunciato l’assistente sociale e il giudice relatore al tribunale di Perugia, auspicando che il gip li rinvii a giudizio, in quanto è ormai chiaro, e sancito anche dalla sentenza d’appello, che hanno palesemente violato la legge».

La vicenda risale al 2023, quando la giovane mamma tredicenne era ancora incinta della sua bambina. Gli assistenti sociali la spediscono a vivere in una casa famiglia fino al momento del parto, avvenuto a maggio, dopo il quale non le viene data la possibilità di stare con la figlioletta se non per una manciata di giorni. Con l’ inganno, fingendo di portarla a fare una visita di controllo, affidano la neonata a una famiglia. Nel frattempo, con una celerità inusuale – 28 giorni appena – il Tribunale per i Minorenni di Roma emana la sentenza di adottabilità della bambina, adducendo un presunto “stato di abbandono” della piccola.

In realtà la neo mamma ha attorno a sé l’intero nucleo familiare che la supporta, ma soprattutto accade qualcosa di contrario ad ogni principio legislativo: in pieno spregio della legge 184/83 alla mamma non viene concessa la possibilità di poter attendere i 16 anni per riconoscere la figlia. E per giunta a nessuno dei familiari è stato comunicato l’avvio del procedimento di adottabilità. La ragazza invece avrebbe dovuto mantenere la bimba con sé in seno alla sua famiglia, fino al compimento di 16 anni e poi diventarne madre a tutti gli effetti.

Sulla base di queste aperte violazioni della legge, all’udienza della Corte d’Appello, svoltasi lo scorso 17 settembre, i giudici hanno accolto il ricorso, dichiarando la nullità della sentenza di adottabilità del Tribunale per i Minorenni di Roma, confermando però il collocamento della bimba presso la famiglia affidataria, per non causarle dei traumi, fintantoché non si compia il processo di graduale avvicinamento della piccola alla madre naturale e possano stare finalmente insieme.

Questa vicenda solleva una questione ancora più ampia: il problema della giustizia non riguarda solo i grandi casi , ma anche le persone comuni, spesso appartenenti alle fasce più deboli della società. In questo caso specifico, i giudici e gli operatori coinvolti sembrano aver agito con una grave negligenza. Se ignoravano le norme, si tratta di una questione di incompetenza, ma se, al contrario, erano pienamente consapevoli delle leggi e hanno scelto deliberatamente di non applicarle, ci troviamo di fronte a un problema ancora più preoccupante. Questo atteggiamento potrebbe addirittura far pensare che tali violazioni siano avvenute perché la vicenda riguarda una famiglia Sinti? È un interrogativo scomodo, ma che merita di essere posto, perché il diritto deve essere uguale per tutti, indipendentemente dall’origine etnica o sociale.

 

 

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Ancona: lo stato italiano condannato dalla Corte europea

Ha violato il diritto di una mamma allontanata dal figlio Richiesto risarcimento all’assistente sociale

ANCONA (6 agosto 2024). Lo Stato italiano ha violato i diritti umani di una mamma: così si è espressa la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, di fatto condannando anche l’Assistente Sociale che da anni impedisce a una mamma di Ancona di vedere il figlio. La mamma ha richiesto un risarcimento in ragione dei danni subiti.

«Anche la Corte dei Diritti Umani riconosce che molti allontanamenti di minori nascondono vere e proprie adozioni mascherate» commenta l’Avvocato Miraglia, legale della mamma ed esperto in Diritto di famiglia e Diritto minorile. Da almeno quindici anni, Miraglia si batte contro gli allontanamenti immotivati di bambini provenienti da famiglie fragili (spesso con scarse risorse economiche o di origine straniera), e che vengono affidati a coppie senza figli e mai restituiti alla famiglia di origine, nonostante l’affidamento dovrebbe essere temporaneo e con carattere d’urgenza.

La mamma, fin dalla nascita del figlio nel 2013, combatte contro i Servizi Sociali di un Comune della provincia di Ancona. Inizialmente, questi ultimi si prendevano cura di lei e del figlio neonato, ma con il tempo hanno allontanato il bambino, affidandolo a una coppia e impedendo gli incontri con la madre che bambino non riconosce più come genitrice.

Esausta, la mamma decide di ricorrere, nell’aprile 2020, alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Nel marzo 2022, la Corte rileva la violazione dell’art. 8 della Convenzione Europea dei Diritti Umani da parte dello Stato Italiano, nella misura in cui «nonostante la decisione del Tribunale per i Minorenni di Ancona che disponeva gli incontri, questi non hanno mai avuto luogo, poiché i Servizi Sociali non li avevano organizzati, il tutore del bambino aveva preso atto di questa situazione senza intervenire e/o proporre ulteriori azioni, e lo stesso Tribunale non ha usato gli strumenti legali esistenti per controllare l’attività e le omissioni dei Servizi Sociali».

La Corte ha inoltre rilevato che il Tribunale per i Minorenni di Ancona non ha mai fornito spiegazioni sui motivi a fondamento della sospensione degli incontri tra madre e figlio, di fatto troncando qualsiasi rapporto tra loro per un periodo superiore a cinque anni e prolungando il collocamento del bambino presso una famiglia affidataria per un tempo indefinito. La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha riconosciuto quindi un danno sia patrimoniale che non patrimoniale. A fine luglio, la mamma ha depositato la richiesta di risarcimento danni contro l’Assistente Sociale responsabile del provvedimento. Ha inoltre dato mandato per citare ai danni sia l’Assistente Sociale che l’amministrazione comunale per responsabilità oggettiva.

«Abbiamo ricevuto un riscontro anche dalla Corte Europea di quanto sosteniamo da anni – prosegue l’avvocato Miraglia – ovvero che in molti Servizi Sociali e Tribunali italiani si opera in modo da allontanare i minori affidandoli a coppie che li tengono per sempre, trasformandole in quelle che definiamo “adozioni mascherate”, senza considerare il dolore inferto ai genitori e gli strappi emotivi e lo stato di abbandono che questi bambini affronteranno da adolescenti e da adulti. Speriamo che tale iniziativa possa essere la prima di una lunga serie. Purtroppo, questo non è un caso isolato, sia ad Ancona che in tutti i Tribunali per i Minorenni d’Italia. Auspichiamo che il Tribunale per i Minorenni di Ancona non solo prenda atto di questa vicenda, ma anche che controlli che situazioni del genere non accadano più. Questa mamma ha subito un dolore paragonabile quasi a un lutto».

L’azione di risarcimento danni avanzata da questa mamma potrebbe essere la prima di una lunga serie. Purtroppo, questo caso di Ancona non è isolato.

Bari: Giudice vieta a un padre di comunicare con la comunità in cui è ricoverata la figlia

L’uomo ha perso la responsabilità genitoriale per aver chiesto informazioni sulla salute della ragazza

BARI (1 agosto 2024). Se non ci si preoccupa dei figli si è cattivi genitori e si rischia di vederseli togliere: ma è successo esattamente il contrario a un uomo pugliese, che aveva chiesto informazioni e approfondimenti circa lo stato di salute della figlia, ospite di una comunità riabilitativa. Non solo gli è stata sospesa la responsabilità genitoriale, ma addirittura il giudice ha vietato sia a lui che al suo legale, l’avvocato Miraglia, di chiamare la struttura. Ogni comunicazione dovrà avvenire esclusivamente attraverso il magistrato. L’avvocato Miraglia ha presentato istanza urgente per chiedere la revoca di questi provvedimenti assurdi e immotivati.
Da febbraio la figlia dell’uomo, quindicenne affetta da patologie neurologiche, è ospite di una comunità terapeutica di Otranto, dove lo scorso maggio è svenuta. È stata portata all’ospedale dove l’ha raggiunta il padre, il quale dai medici ha ricevuto la diagnosi di epilessia. L’uomo, preoccupato per la salute della figlia, ha chiesto che venissero svolti ulteriori accertamenti medici e diagnostici, per accertare fosse davvero epilessia prima di farle assumere nuovi farmaci.
Tale preoccupazione paterna è stata interpretata come un’opposizione a terapie salvavita e in un battibaleno il tribunale dei Minorenni di Bari gli ha sospeso la responsabilità genitoriale per quanto attiene alla materia sanitaria, affidando le decisioni sulle cure della ragazza a un curatore speciale.
L’uomo ha pensato allora di riportare a casa la ragazza, per occuparsene insieme alla nonna, dal momento che in comunità gli è impossibile avere accesso ad ogni informazione sul suo conto. Ma prima ha voluto verificare se questa sua decisione fosse davvero la cosa migliore per la ragazza, chiedendo tramite il suo legale che tipo di progettazione e di percorso stia seguendo la figlia all’interno della comunità.
«Siamo rimasti sbigottiti – dichiara l’avvocato Miraglia – in quanto ci è arrivata copia di una relazione senza il nome della ragazza e soprattutto riportante più volte il riferimento alla madre, che però nella vita di questa ragazzina non è presente, avendo solo il padre e la nonna. Pertanto riteniamo che non ci sia alcuna progettualità né in corso né prevista e che ci sia stata propinata una relazione “copia e incolla” presa chissà dove. Ancora più inaudito è quanto capitato all’udienza del 16 luglio: il giudice delegato ha revocato in toto la responsabilità genitoriale al padre e ha intimato al sottoscritto di evitare di contattare la comunità, ma di rivolgere d’ora in poi al Tribunale per i minorenni ogni istanza e osservazione. Ci chiediamo quale interesse giuridico e processuale possa mai esserci dietro a una simile decisione.

Castelli romani, accusata di maltrattamenti e vessazioni alla figlia presunta  omosessuale.

Madre scagionata dopo cinque anni perché il fatto non sussiste

VELLETRI (12 giugno 2024). Era stata accusata di aver maltrattato e sequestrato la figlia perché omosessuale, perdendo il suo buon nome e anche l’attività lavorativa. Ma dopo cinque anni giustizia è stata fatta: il Tribunale di Velletri ha scagionato una donna che vive in un Comune dei Castelli romani perchè il fatto non sussiste. Restano però cinque anni nei quali la sua vita è stata distrutta. Nel frattempo ha ricucito i rapporti con la figlia, ma questo non la ripaga della gogna mediatica cui è stata sottoposta anche da parte di un’associazione che si occupa del sostegno alle persone gay e trans e che ha cavalcato decisamente l’onda per far pubblicità a sé e alla causa LGTBQIA+.

Cinque anni fa la figlia della donna, che all’epoca aveva diciassette anni, aveva dichiarato la propria omosessualità alla madre. La situazione in casa si era complicata ed era diventata tesa: la ragazza si era rivolta a un’associazione che promuove servizi, iniziative e cultura per il benessere e i diritti delle persone LGBTQIA+, affermando di essere vittima di violenze fisiche e psicologiche da parte della madre proprio in virtù del proprio orientamento sessuale. Il referente dell’associazione, attivista e politico, si era subito lanciato sui media nazionali in un’accorata presa di posizione nei confronti della ragazza, sostenendo che la diciassettenne fosse stata segregata in casa, privata del telefono e di ogni mezzo di comunicazione con l’esterno, e persino picchiata. Tutti fatti che ad oggi risultano privi di ogni fondamento. Purtroppo però, oltre a dover attendere una sentenza, la madre si è vista additare come pessimo genitore e, isolata e malvista, era stata costretta a chiudere la propria attività perdendo quindi il lavoro.

«Nessuno nega la nobiltà degli intenti delle associazioni che si occupano delle vittime di violenze e di discriminazioni – dichiara l’avvocato Miraglia, il legale della donna – ma occorre stare molto attenti a non strumentalizzare le vicende per sostenere la propria causa. Questa donna aveva soltanto cercato di allontanare la figlia, ancora minorenne, da una relazione con una donna che abitava fuori regione, molto più grande di lei, con seri problemi personali. Aveva soltanto cercato di proteggere sua figlia, con la quale tra l’altro ora ha ricucito i rapporti. Pertanto, prima di prendere posizioni a priori, occorrerebbe pensare alle conseguenze, a come certe affermazioni possano rovinare la vita delle persone e trasformarsi in discriminazione al contrario».

 

 

Maltrattamenti su minori: Denunciata una comunità in provincia di Frosinone.

Frosinone (30 aprile 2024). Tre fratelli, proveniente da ambiente familiare agiato e sereno, sono stati collocati in struttura in seguito ad una separazione conflittuale.

I ragazzi sono stati letteralmente sradicati dal loro contesto familiare e messi in un ambiente ostile, afferma l’avv. Miraglia che rappresenta il padre. Da quando sono stati collocati in questa comunità,  a dire del padre, i tre fratelli hanno subito violenze da parte di altri ospiti della comunità e hanno ricevuto cure mediche inappropriate e potenzialmente pericolose per uno di loro che soffre di una patologia cronica.

Le richieste e le preoccupazioni del padre vengono completamente ignorate. Nonostante il padre porti loro dei vestiti, i ragazzi si ritrovano ad indossare quelli di altri e anche di taglie diverse.

“Il padre ha segnalato più volte questa situazione alla responsabile della struttura – riferisce l’Avvocato Miraglia – che però ha sempre minimizzato, asserendo che fossero tutte fantasie inventate dai ragazzi, sebbene presentassero sul corpo ecchimosi e graffi”.

Alcune relazioni hanno rappresentato fatti completamente diversi da quelli realmente accaduti, con il solo scopo di screditare i ragazzi e il padre stesso.

Nonostante le prove di maltrattamenti fornite dal padre, che includono registrazioni che dimostrano la manipolazione delle informazioni, il giudice della separazione,  che ha ascoltato personalmente uno dei ragazzi, ha deciso di mantenerli in struttura.

Questa decisione pone interrogativi significativi sulle modalità con cui vengono prese le decisioni nel contesto del diritto di famiglia e sulle valutazioni dei rischi per la sicurezza e il benessere dei minori.

“L’azione del giudice che ha confermato la collocazione, nonostante le accuse del padre, richiede un esame critico e solleva preoccupazioni sulle procedure adottate dal Tribunale” aggiunge l’avv. Miraglia.

“E’ essenziale che i tribunali, non solo ascoltino le voci dei minori, ma che considerino attentamente tutte le prove disponibili”.

E’ fondamentale che le istituzioni preposte operino in modo trasparente e conforme alle normative vigenti, garantendo che le strutture di accoglienza siano ambienti sicuri e supportivi.

La vicenda di questi tre fratelli richiede un’indagine più dettagliata, assicurando che la loro sicurezza e il loro benessere siano sempre posti al centro di ogni decisione.

 

Chieti: quattordicenne plagiata da un adulto, l’assistente sociale ​lo fa entrare in casa famiglia

CHIETI (29 aprile 2024). Una quattordicenne che vive nella provincia di Chieti è stata plagiata da un uomo molto più grande di lei, di 24 anni. Un uomo terribile, dai racconti che oltre ad avere degli incontri intimi con lei da quando aveva appena tredici anni, l’ha irretita a tal punto da farle odiare la famiglia, l’ha costretta a fare sesso con lui e a consegnarli le mance dei genitori per comperarsi la droga. La ragazzina è stata condotta in casa famiglia, visto il difficile rapporto che si è instaurato con la famiglia a causa delle manipolazioni dell’uomo: ma invece di permetterle di vedere i genitori e il fratello per ricostruire un rapporto con loro, l’assistente sociale le fa vedere invece regolarmente l’uomo. E sostiene che sia la madre della giovane ad essere una persona “sbagliata”, tanto da aver allontanato da casa anche l’altro figlio, che nel frattempo è rientrato a casa con i genitori.

Secondo l’assistente sociale, pertanto, una madre che si preoccupa di mettere al sicuro la figlia è un pessimo genitore, mentre un uomo che si approfitta di una ragazzina è giusto per lei e può tranquillamente continuare a vederla.

«Stiamo perfezionando la querela contro l’assistente sociale e la comunità – annuncia l’avvocato Miraglia, legale dei genitori – per aver allontanato da casa anche il figlio maggiore che non c’entrava nulla e per aver consentito a un uomo che plagia una minorenne di continuare a frequentarla. La legge è chiara: un uomo che si approfitta di una tredicenne commette un reato penale e chi non lo impedisce è responsabile del medesimo reato. È incredibile tutto questo e abbiamo chiesto all’assistente sociale se il permettere la frequentazione tra la minore e quell’uomo faccia parte di un qualche tipo di percorso educativo o terapeutico. Ma ci rendiamo conto? Stiamo parlando di una bambina che frequenta la scuola medie: come si può consentirle di vedere un uomo adulto considerandolo il suo fidanzato?».

Il ventiquattrenne era entrato alcuni mesi fa nella vita di questa famiglia, che lo aveva accolto come un figlio. Si era presentato come solo e privo di impiego e la madre della minore, in buona fede, gli aveva dato ospitalità e un lavoro. Ma una volta sistemato, ha mostrato il suo vero volto: ha manipolato giorno dopo giorno la tredicenne, facendole credere che fossero tutti cattivi tranne lui, costringendola a rapporti intimi e a dargli i suoi soldi, che lui usava per lo stupefacente. Quando la madre della giovane si è rivolta ai carabinieri, sono intervenuti i servizi sociali, che hanno però allontanato da casa non solo la ragazzina bensì anche il fratello. E invece di tutelare e mettere la giovane al sicuro, le consentono di continuare a vedere regolarmente questo individuo.

​            “È intollerabile​ che il sistema destinato a salvaguardare i nostri figli diventi complice di tali atrocità. Chiediamo un intervento immediato delle autorità per rivedere completamente i protocolli di intervento dei servizi sociali e per assicurare che tali inadempienze siano sanzionate severamente. Non ci può essere scusa né tolleranza per coloro che, attraverso azioni o negligenze, mettono in pericolo la vita e il benessere dei nostri bambini. Questo non è solo un fallimento individuale, ma un campanello d’allarme per una riforma urgente. Dobbiamo agire ora per proteggere i più vulnerabili.” Afferma l’Avv. Miraglia.