12 Maggio 2018
È mattina presto, Laura (la chiameremo così) risponde al telefono: è un carabiniere che le comunica di doversi presentare immediatamente in caserma; lei chiede il perché, “mio figlio dorme”, dice; “deve venire subito, le spiegheremo”, il messaggio perentorio. “Lo prendo dal letto, gli metto il giubbino sul pigiama, le scarpe e corro”, racconta Laura, lucidissima nel suo dolore. Non appena arriva un carabiniere prende con se’ il bimbo di neanche tre anni, “così la mamma parla con calma”, dice. Laura è incredula, pronta ad ascoltare. “Mi dicono: il bambino in questo momento è già stato portato via, lei stia calma e collabori. Io sto malissimo, non capisco: davanti a me si presentano due assistenti sociali e due operatori del 118; mi dicono che se non collaboro è pronto un tso”.
L’incubo a volte bussa la mattina presto a casa quando ancora dormi, ma non stai sognando.
È il 13 ottobre 2017. Solo due mesi dopo Laura verrà a conoscenza delle motivazioni del “rapimento”, come lo chiama lei e solo cinquanta giorni dopo riabbraccerà suo figlio in un incontro protetto, dove lei non deve dire di stare male – come ovvio che sia per qualsiasi mamma che si trovi privata del proprio figlio piccolissimo – perché sennò “dicono che sono depressa, che non sono adeguata, mi ha consigliato l’avvocato così”.
Il legale di Laura è Francesco Miraglia che – ci dice – di casi come questo – terribili, disumani – ne accoglie 4 o 5 la settimana. In cinque mesi Laura ha incontrato suo figlio solo quattro volte: “È regredito tantissimo, a volte faccio fatica a capire cosa dice, piange quando mi vede, mi chiede perché non lo porto con me, mi dice che mi vuole bene. È come se si sentisse in colpa nei miei confronti”.
Ma perché è avvenuto questo allontanamento e in questo modo? Ricostruiamo la vicenda.
A far scattare l’allontanamento, una segnalazione di un amico che Laura conosce da 15 anni, ma che frequenta più assiduamente da poco, dopo essersi finalmente liberata dalla relazione violenta con il padre del piccolo. L’amico vorrebbe costruire una famiglia e le confida di essere innamorato di lei da sempre; la donna chiede di non correre, “magari accadrà, gli dico, ma adesso devo pensare a mio figlio e non riesco a buttarmi in un’altra relazione”. L’amico comincia a non sopportare più questa situazione, per lui di limbo, forse inizia a essere geloso di questo figlio a cui Laura pensa più che a lui. E così per vendetta chiama i carabinieri per dire che Laura è depressa e minaccia di suicidarsi. È il 9 ottobre; Laura non sa nulla: lui, immediatamente, si rende conto di avere fatto una sciocchezza pericolosa e due giorni dopo ritratta tutto. Ma ormai la macchina infernale è partita. I carabinieri non tengono conto della marcia indietro.
Ed è così che il 13 ottobre, attraverso un provvedimento del Tribunale dei minorenni di Bologna, viene allontanato in modo violento il bimbo da sua madre e spedito immediatamente a una famiglia affidataria di cui Laura non conosce l’identità e con cui non può interagire. L’avvocato Miraglia ha da subito inoltrato osservazioni al Tribunale di Bologna segnalando come la diagnosi di disturbi comportamentali della psicologa a seguito di un solo incontro avuto con Laura e il bambino, fosse del tutto arbitraria e infondata. La madre, infatti, non era mai stata segnalata ai servizi sociali in precedenza (abita in una località del Ferrarese) e – come scrive Miraglia – “a meno che la dottoressa non abbia la palla di vetro” è certo che abbia tradito la sua deontologia. Proprio all’inizio del mese di aprile, per questi ed altri motivi, il legale ha presentato denuncia ufficiale per falso ideologico.
“In questi mesi ho seguito un iter di sostegno alla genitorialità, mi sono sottoposta a vari test psicologici e non si è risolto niente”, racconta Laura. Che si chiede: “Io non capisco perché me l’hanno rapito in questo modo, perché non sono venuti a casa mia mille volte al giorno a vedere come stava il bambino, se avevano bisogno di chiarire dei dubbi, perché non hanno chiesto alla pediatra che lo segue da quando è nato, perché non hanno chiesto in giro? Perché ci hanno fatto questo? Se anche riuscirò ad avere di nuovo mio figlio con me, sarà un altro bimbo: sarà spaventato, circospetto, e non il bambino solare e sereno che ho lasciato! Mio figlio era sereno, socievole, allegro, educato: passavamo tanto tempo insieme e dalle assistenti sociali mi sono anche sentita dire che stare troppo tempo con lui era segno di morbosità…”.
A chiarire la situazione, mostrandone ancor di più la gravità, sono delle registrazioni che la madre ha fatto durante gli incontri protetti col bambino dalle quali si evincono versioni totalmente diverse dei fatti da quelle raccontate da psicologa e assistente sociale, che hanno in alcuni casi specifici, distorto incomprensibilmente la realtà. Si parla ad esempio, di una volta in cui il bambino (che ormai aveva tolto il pannolino), durante un incontro – forse perché in ansia – si era fatto la pipì addosso, cosa di cui anche la psicologa si era resa conto benché nella relazione sostenesse che fosse stata la mamma ad accompagnarlo in bagno e probabilmente a bagnarlo per evidenziarne il disagio.
“Mi dicono che mio figlio fa un sacco di capricci, rifiuta di lavarsi, gli danno delle gocce per dormire perché si sveglia in continuazione… Non si può descrivere il dolore che provo. Dicono che dopo gli incontri con me mostra disagio, ma se lui piange, a nessuno viene in mente che forse vuole solo stare con la sua mamma?”.