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Novità Editoriale: L’avvocato dei bambini

“Il sussurro dell’uragano”  – Presentazione di Francesco Morcavallo

Il presupposto del pensiero è la libertà. Sum ergo cogito: così qualcuno soleva sapientemente invertire la relazione cartesiana. E sottintendeva: non sum nisi liber.

Lungo il filo conduttore della libertà-dignità corrono le riflessioni dell’Autore, dell’Amico, del Giurista, dell’Uomo (le lettere maiuscole non si riguardino come vezzo celebrativo, ma come voluta differenziazione rispetto ai minuscoli che, di tempo in tempo, nella scelta tra giustizia e vassallaggio, hanno scelto la via più comoda).

L’Autore, dunque, ci indica che pensare il sistema della tutela dei deboli significa considerare i deboli come uomini, non come sottoposti a un potere (tantomeno se quel potere diventa occasione e fine di guadagno).

L’Amico ci onora di farci partecipare al suo impegno e alle sue battaglie, laddove porta il cimiero di Achille con la serenità d’un Aiace, con la lealtà di un Ettore.

Il Giurista ci descrive il sistema di tutele minorili e familiari per come è, per come dovrebbe essere, per le ragioni ostative a che sia come dovrebbe: e ci fa capire che quelle ragioni sono ingiuste –oltre che illegittime anche ad ordinamento invariato-, risiedono nella poca conoscenza dei principi e delle norme, nella meschinità di molti operatori, nella latenza –in buona o cattiva fede- del controllo giurisdizionale.

L’Uomo ha il coraggio di pensare, di razionalizzare e di comunicare ciò che vede, comprende e critica, quando invece molti, che da sempre dovrebbero prendere atto delle sue indicazioni e mutare la propria inerzia in attività e la propria disonestà in impegno, a turno tentano di persuaderlo a tacere, di intimidirlo, di offenderlo, di frenare l’effetto delle sue iniziative, mentre nutrono e nascondono (senza riuscirci) il moto di vergogna che in fondo provano per aver essi stessi, invece, taciuto o, peggio ancora, tenuto bordone alle violazioni e agli scempi: in definitiva, per non aver avuto il suo coraggio o, quantomeno, il coraggio di procedere in una direzione diversa da quella dettata dalla convenienza propria o dall’imposizione altrui. Ma, come è stato scritto, il coraggio lo si ha o non lo si ha, non ce lo si può dare.

Un coraggio, quello delle pagine che qui consideriamo, fatto però di pacatezza, di osservazione, di logica. Come quello che ci ha insegnato –e ogni giorno ci insegna- chi ha la pazienza di volerci bene e ci ricorda che la forza della critica, la sua capacità di cogliere il giusto segno, non è nella veemenza (l’invettiva può essere fraintesa come violenza; l’allusione confina con l’illazione; l’offesa, anche se meritata da colui al quale la si indirizza, fa perdere di vista la vera distribuzione dei torti e delle ragioni); quella forza è invece nel contenuto, nella verità e linearità di ciò che si dice, nella semplicità e coerenza con cui si smaschera il fumoso argomento che tende a coprire la malafede o l’abuso. Con il garbo del sussurro, un’equazione, un sillogismo, un’argomentazione tecnica possono diventare un’arma di giusta battaglia, possono acquisire l’effetto dirompente di un uragano.

Dotato di contenuti tecnicamente informati e corretti, di una vasta esperienza della realtà, il sussurro di queste pagine sbaraglia un intero sistema di malaffare, quello della vendita della libertà delle persone e dei loro figli, che si nutre soprattutto di non conoscenza e di silenzio. Parlare, informare, argomentare, ricondurre le norme e la loro applicazione ai principi della libertà e dell’uguaglianza –soprattutto dell’uguaglianza dei privati di fronte al potere pubblico- equivale a contrapporre un sistema di diritti e tutele ad un sistema di prevaricazione.

Dunque, l’opera prosegue e arricchisce, con il taglio di una riflessione complessiva e propositiva, il lungo percorso tracciato dalla vastissima esperienza professionale (oggetto, oltre tutto, di molte invidie e di molti falliti tentativi di intrusione) e dalla pubblicazione di significativi approfondimenti casistici. Particolarmente marcati  anche in questa ultima riflessione -già anticipata in più sintetico compendio, apprezzato e diffuso- sono, oltre che il già ravvisato e peculiare intento di sistematizzazione,  due importantissimi effetti sociali.

Il primo: viene ancora una volta squarciato il velo che ammantava gli abusi dell’amministrazione e della giustizia minorili sotto una parvenza di legittimità e liceità formali; invece, né l’ordinamento, né la scienza consentono e contemplano che l’autorità vincoli le relazioni familiari e vi instauri interventi perenni (e redditizi) sulla base di soggettive -e, dunque, potenzialmente arbitrarie- valutazioni, anziché alla stregua dell’accertamento e della qualificazione, con le garanzie del processo, di fatti e comportamenti comprovati. Ed è utile che ciò sia noto anche a chi sia incorso o si senta in pericolo di incorrere nel rischio di quegli interventi.

Il secondo: il risalente retroterra di esperienza e conoscenza, presupposto alla composizione dell’opera, ha contribuito in modo sostanziale a stimolare una virtuosa attivazione istituzionale che è mancata per gran tempo (e di cui talvolta si ascrive il merito chi, quando era il momento di cogliere e segnalare i problemi, era invece dormiente o connivente): così, per esempio, si sono istituite commissioni parlamentari di inchiesta sugli affidamenti illeciti, sono stati proposti disegni di legge per il riordino della normativa minorile sostanziale e processuale, ha preso corpo la proposta di svolgere e regolamentare dettagliatamente attività ispettive sull’operato dell’assistenza sociale e sull’attività delle strutture di ricovero minorile.

Intorno a questi temi sono cresciuti consenso e impegno, oggi giunti ad un livello considerevole.

Ma ciò non toglie che la mente corra a quei compagni di viaggio che erano già al primo imbarco e la cui vela è stata sempre tesa. Tenendo presente questo pensiero, chi legge mi perdonerà d’aver forse tralasciato il compito assegnato, sostituendolo con qualche trasognata divagazione: senza la quale, del resto, avrei potuto soltanto limitarmi a ripetere che non c’è bisogno di presentazioni.

Torino: lettera a Papa Francesco

Avvocato Miraglia: «Santo Padre, liberi il bimbo sequestrato dalla comunità terapeutica gestita dalla Diocesi di Tortona»

ALESSANDRIA (20 Dicembre 2021). Papa Francesco si è commosso alla vista del campo profughi di Kara Tepe nell’isola di Lesbo, durante la sua recente visita in Grecia, dove bambini, donne e uomini vivono reclusi, ingabbiati dentro recinti di filo spinato, senza dignità, reduci da una realtà che potrebbe definirsi senza mezzi termini alquanto disumana. Ma una realtà terribile è presente anche nella più vicina Italia, per giunta in una struttura gestita dalla Diocesi di Tortona. Una comunità terapeutica, pure intitolata a un papa, che tiene segregato un ragazzino iperattivo di nove anni, imbottendolo di farmaci, rinchiudendolo senza possibilità di vedere la madre e senza nemmeno fargli frequentare la scuola. Alla vista del costernato dolore del papa, l’avvocato Miraglia ha preso carta e penna e ha scritto direttamente a lui, al Santo Padre, chiedendo che interceda nella liberazione del ragazzino dal lager che è quella struttura, deputata a fornire assistenza terapeutica ma che di fatto è un manicomio per bambini mascherato.

«Ha destato molta commozione il suo racconto Sua Santità, in merito a questo suo ultimo viaggio – scrive l’avvocato Miraglia, – per questo motivo siamo altrettanto sconvolti per quello che sta accadendo nella struttura Paolo VI di Casalnoceto, in provincia d’Alessandria, gestita dalla Diocesi di Tortona, tanto da non capacitarci circa l’abnorme dissidio tra ciò che Lei promuove e rappresenta, Santissimo Padre, e l’esatto contrario, che invece accade presso la struttura sopraccitata».

Questo bambino di nove anni vive appunto “sequestrato” dalla comunità terapeutica, nella quale è stato confinato due anni fa per una sorta di “ripicca” nei confronti della madre, che si era lamentata con la scuola che all’epoca il bimbo frequentava, in quanto incapace di gestire la sua iperattività. Invece di fornire un supporto alla famiglia, il Tribunale per i minorenni del Piemonte e Valle d’Aosta ha confinato il bimbo dentro la comunità terapeutica, da cui non esce nemmeno per andare a scuola. Non vede nessuno, nemmeno la mamma. E viene regolarmente sedato con i farmaci. È ingrassato ed è regredito nel comportamento e nel linguaggio. Varie sono state le volte in cui la mamma del bimbo si è recata in comunità per vedere il figlio o per sentirne almeno la voce, ed invece di essere accolta con un po’ di buonsenso è stata addirittura denunciata dagli stessi operatori della comunità.

«Sua Santità – prosegue l’avvocato Miraglia nella sua lettera – non è possibile trattare una mamma alla stessa stregua di un criminale, solo perché rivendica l’amore per il proprio figlio. Ancor più grave è questo atteggiamento arrogante e prepotente, assunto dagli operatori che lavorano ed operano in una struttura di proprietà della Diocesi. Ben sappiamo dei suoi tanti impegni, tanti sono i suoi pensieri, ma con tutto l’amore di Dio le chiediamo di dedicare un secondo della sua giornata a questo piccolo, che non vuole altro che riabbracciare la sua mamma. Sua Santità, il mio studio legale da anni combatte contro il sistema degli affidamenti illeciti, contro l’alienamento dei minori dai propri genitori e contro questo mercato fatto sulla pelle dei bambini, ma mai avrei pensato di combattere contro chi opera in nome della Famiglia, dell’Amore e della Misericordia dei bambini».

 

Avvocatessa Bolognese vive in comunità con la sua bambina di un anno

AVVOCATESSA BOLOGNESE VIVE IN UNA COMUNITÀ CON LA SUA BAMBINA DI UN ANNO

 

Timore per la bimba: dopo aver trascorso l’intera sua piccola vita in ospedale per problemi di salute, avrebbe bisogno di tranquillità e di un ambiente quanto più sterile possibile

 

BOLOGNA (01 Giugno 2021). Incomprensibile la decisione assunta dai Servizi sociali bolognesi nei confronti di una donna, uno stimato avvocato, e della sua bambina, che il suo anno di vita lo ha trascorso interamente in ospedale, per gravi problemi di salute: sono costrette a vivere in una comunità, senza che però vi sia la necessità di metterle in salvo da un immediato pericolo o che necessitino di un qualsivoglia aiuto. Il motivo che ha spinto gli assistenti sociali ad assumere un simile provvedimento, è stata “l’opposizione alle terapie e ai suggerimenti del personale sanitario, l’atteggiamento polemico verso gli operatori e l’aver impedito le cure necessarie alla salute della piccola”. Motivazione che non rispecchia in alcun modo la vicenda come si è svolta nella realtà dei fatti.

L’avvocatessa vive sola e poco più di un anno fa ha dato alla luce una bambina, che ha mostrato fin da subito grossi problemi di salute e la necessità di essere sottoposta, a poche settimane di vita, al primo di una lunga serie di interventi chirurgici.

La bimba, infatti, ha subito ben sei interventi, tre dei quali a cuore aperto. L’evento che ha scatenato il procedimento è stato quando, dopo la quinta operazione, la madre si è opposta al trasferimento della figlia nel reparto di pediatria, sostenendo che la piccola stesse ancora troppo male per essere collocata in un reparto non specializzato. E infatti la bambina, le cui condizioni sono peggiorate sensibilmente, è stata sottoposta d’urgenza ad un ulteriore intervento. La madre quindi ci aveva visto giusto, aveva capito che qualcosa non andava, a dispetto di quanto affermavano i medici. Sta di fatto, però, che per questa sua “opposizione”, pur comprovatamente motivata, è stata segnalata ai Servizi sociali, che hanno provveduto a formalizzare la presa in carico di madre e figlia, collocandole, una volta che la piccola è stata dimessa dall’ospedale, in una comunità di accoglienza.

«Un contesto che non si addice alle necessità della piccola» dichiara l’avvocato Miraglia, al quale si è rivolta la donna, «la quale, a causa delle patologie di cui soffre, seppure al momento stabile, rischia di contrarre delle infezioni e conseguentemente di aggravare di nuovo la propria condizione di salute. È evidente che il collocamento presso la dimora della madre sarebbe la soluzione più consona alle esigenze di questa bambina».

Non si capisce quindi il motivo per il quale questa donna non possa ritornare nella tranquillità di casa propria, anche perché all’interno della comunità madre e figlia sono alloggiate senza che sia stato predisposto per loro un progetto di sostegno, un percorso di qualunque tipo. Parcheggiate e basta. «L’attuale collocazione» prosegue l’avvocato Miraglia «non è quindi giustificata né dal punto di vista dei fatti né dal punto di vista del diritto. A cosa serve una simile collocazione in comunità? Sarebbe importante che il Tribunale per i minorenni dell’Emilia Romagna spiegasse quale sia l’obiettivo di tale collocamento: è pacifico che la mancata risposta non fa che avvelare quella tesi che sostiene che siffatte collocazioni siano parte integrante di quel mercato fatto sulla pelle dei bambini».

La donna ha presentato quindi istanza urgente al Tribunale per i minorenni di Bologna, confidando che venga accolta quanto prima possibile, nell’interesse della salute di una piccina così fragile, che per tutta la sua vita ha conosciuto solo ambienti estranei e asettici e mai il calore della propria casa.

 

Rende invalida la compagna a suon di botte

Il Tribunale affida a lui il bambino.
 
LECCE (18 Dicembre 2019). Ha passato gli anni della convivenza tra continue botte e vessazioni da parte del compagno “padrone”, che infieriva su di lei anche in presenza del loro figlioletto. Anzi, in un’occasione ha rotto pure il naso al bambino, trovatosi accidentalmente in mezzo alla furia cieca del padre nel corso di una delle sue sfuriate. Dopo la separazione l’uomo ha dato una spinta talmente violenta alla donna, che cadendo si è procurata lesioni tali a una gamba da essere giudicata invalida al 55 percento. Ma il Tribunale dei Minorenni di Lecce cosa fa? Pur in presenza di una situazione simile, di ben tre pendenze sull’uomo per violenza domestica e stalking, pur essendo il bambino palesemente terrorizzato alla sola vista del padre, ebbene ha deciso che prioritario fosse recuperare il rapporto padre-figlio, inserendoli entrambi dentro una comunità. Padre e figlio insieme per ritrovare l’armonia. «Come abbia potuto pensare, il Tribunale, che questo bambino, strappato di punto in bianco dalla sua mamma, dalla sua casa e dalle proprie cose, potesse trovare serenità dentro una comunità di estranei, lo sa solo lui» dichiara l’avvocato Francesco Miraglia, cui la donna si è rivolta per ottenere giustizia. «Io di certo non riesco a capire quale motivazione ci possa essere per giustificare l’assunzione di un simile, ingiusto e ingiustificato provvedimento, tutto a danno del bambino, il quale da quando a giugno è stato portato in comunità, non fa che peggiorare le sue condizioni fisiche e psicologiche. Vive tutto come una punizione ingiustificata. E la madre, vittima delle violenze di quest’uomo, è considerata dal tribunale come il vero “orco”, mamma cattiva che impedirebbe che il rapporto tra padre e figlio sia sereno». La cosa più grave all’udienza di ieri è che il Presidente del tribunale ha addirittura “giustificato” le violenze: “E’ vero che ci sono i procedimenti penali a carico del papà, ma è pur vero che non ci sono condanne”. E ancora più incredibile è stata l’affermazione dello stesso Presidente che ha sostenuto che la frattura al setto nasale del bambino non è colpa del padre ma solo un evento accidentale, se pur in quell’occasione lo stesso bambino aveva cercato di difendere la mamma mentre la stessa veniva aggredita.
Le stesse relazioni dei periti del tribunale  affermano invece che la donna, oltre ad essere madre amorevole, mai si è frapposta tra l’ex compagno e il loro figlioletto. Mai. E’ un’educatrice e conosce bene l’importanza della relazione tra un bambino e il proprio genitore. «Eppure eccola qui» prosegue l’avvocato Miraglia, «privata del suo bambino, costretta a vederlo solo nel corso di incontri protetti, parte lesa in una vicenda nella quale, inspiegabilmente, è l’ex compagno ad uscirne sempre positivamente. Tra l’altro se il Tribunale dei Minorenni ha assunto l’assurdo provvedimento di esiliare questo bimbo in una comunità con il padre, pure il Tribunale penale ci ha messo del suo: a suon di rinvii ci stiamo pericolosamente avvicinando a giugno, termine oltre il quale i reati ascritti all’uomo cadranno in prescrizione. Ci appelliamo al senso di giustizia dei giudici, che assumendo provvedimenti così iniqui hanno danneggiato soltanto il bambino, violando, di fatto, almeno tre convenzioni internazionali: quella di Istanbul, che prevede come in caso di violenza, la tutela dei bambini venga prima dei diritti di custodia e di visita dei genitori; quella di Strasburgo, che tutela i diritti dei bambini; e quella di New York, che prevede come il minore, su questioni che lo riguardano, abbia il diritto di essere ascoltato e di vedere tutelata la propria volontà.

Giudice denunciato ad Ancona

 Avrebbe cercato di interferire nella diagnosi psichiatrica di una donna per garantire che la figlia rimanga affidata a una coppia di amici
(7 Novembre 2019). Forse persino peggio di Bibbiano quanto accade ad Ancona, dove un giudice si permette di intromettersi personalmente nel caso di una bambina, che da quattro anni vive con una coppia affidataria, una coppia di suoi amici, tra l’altro più volte ritenuta inadatta. Alcuni giorni fa ha incontrato di nascosto un professionista coinvolto nel caso, cercando di interferire nella diagnosi, pur di garantire la collocazione della bambina a questa famiglia affidataria e impedire alla piccola di tornare con la mamma. «La bambina non gliela ridaremo mai in quanto malata psichica» avrebbe detto chiaramente il giudice, che pertanto è stato denunciato dalla madre della piccola per abuso di ufficio, false dichiarazioni e lesioni personali. «Quanto è successo, oltre che inaudito è gravissimo» dichiara l’avvocato Francesco Miraglia, legale della mamma della bambina. «Abbiamo già denunciato in precedenza la coppia affidataria per maltrattamenti, per come condizionano la bimba, ostacolando in tutti i modi il rapporto con la mamma naturale. Ancora più grave quanto capitato alcuni giorni or sono: il giudice ha chiamato di nascosto la psichiatra, per cercare di capire se fosse dalla sua parte, se avvallasse l’allontanamento da casa della piccina. Inammissibile! La Procura della Repubblica presso il Tribunale di Ancona deve assolutamente fare chiarezza».
Questo giudice ha mostrato un vero e proprio interesse personale in questa vicenda, nell’affidamento e nella collocazione della bambina, che ha affermato più volte di conoscere il magistrato, essendo stato ospite a casa della famiglia affidataria con cui vive; la chiama addirittura con il nomignolo con il quale la chiamano gli amici nella vita privata. E più volte durante le udienze il giudice ha “consigliato o meglio minacciato” la madre della bimba di ritirare le denunce mosse nei confronti della famiglia affidataria, sostenendo in udienza che dovrebbe farsene una ragione e di accettare di non rivedere mai più la figlioletta. Tra l’altro la donna vede pochissimo la bambina e per giunta nel corso di incontri protetti che deve pagare a proprie spese.
Dopo tanti pregiudizi si è arrivati al 21 ottobre scorso, quando il magistrato ha convocato privatamente un professionista coinvolto nel procedimento, ammonendolo a non rivelare nulla alla controparte e chiedendogli se fosse in linea con la diagnosi di malattia psichiatrica nei confronti della donna, perché quella bambina a casa non ci doveva tornare. Diagnosi sulla quale il professionista comunque non concorda, ritenendo pertanto inaccettabile un comportamento simile da parte di un giudice. Ha avvertito quindi il legale della donna, l’avvocato Miraglia, che ha chiesto l’immediata ricusazione del giudice e dell’intero collegio investito del procedimento e altresì che il fascicolo sia avocato al presidente del Tribunale per i minorenni di Ancona per le opportune valutazioni in merito e per la designazione di un diverso collegio, e che gli atti siano trasmessi alla Procura competente. «Questo modo “carbonaro”, fatto di sotterfugi, fa calare un’ombra sull’intero procedimento» prosegue l’avvocato Miraglia. «Chi garantisce la correttezza di altre decisioni assunte da questo giudice, che tanto sta facendo pur di tenere lontana questa bambina dalla propria madre?».

Sappiamo dov’è Anna Giulia». I coniugi Camparini chiedono di rivedere la figlia, data in adozione anni fa, e di riaprire il procedimento. La psicologa che l’allontanò da loro è implicata nell’inchiesta “Veleno”

REGGIO EMILIA (4 giugno 2019). «Sappiamo dov’è Anna Giulia»: Gilda e Massimiliano Camparini hanno trovato la loro figlia, che non vedono da almeno otto anni, essendo stata data in affidamento a una coppia che risiede in una località che il Tribunale dei Minorenni di Bologna ha tenuto segreta. «Vogliamo rivederla, sapere come sta, se si ricorda di noi e che cosa le abbiano detto per convincerla a sopportare l’adozione e l’allontanamento dai suoi genitori. Ma vogliamo anche che si apra di nuovo il procedimento che ce l’ha vista strappare via: la psicologa che, montando accuse false contro di noi, ha convinto il tribunale a darla in adozione, è implicata nell’inchiesta “Veleno”» dichiarano i Camparini.

L’inchiesta dei giornalisti Pablo Trincia e Alessia Rafanelli, pubblicata in sette puntate su Repubblica.it, è una docu-serie investigativa, che ricostruisce il caso dei “Diavoli della bassa modenese”: vent’anni fa, in provincia di Modena, sedici bambini tra i Comuni di Massa Finalese e Mirandola furono allontanati per sempre dalle loro famiglie, accusate di far parte di una setta di satanisti pedofili. Accuse dimostratesi infondate e che i bambini di allora, ormai adulti, svelano nata da dichiarazioni loro estorte. C’è chi ci è morto di crepacuore e chi si è suicidato e i bambini non hanno più rivisto le loro famiglie. Dietro a tutto questo un gruppo di persone, sempre lo stesso, che sarà protagonista, dieci anni dopo, dell’incredibile vicenda di Anna Giulia Camparini.

Al centro dell’inchiesta c’è infatti la psicologa Valeria Donati dell’Asl di Modena, successivamente responsabile di una struttura privata di Reggio Emilia, il CAB (Centro Aiuto al Bambino – Cenacolo Francescano), che ospitava bambini sottratti alle famiglie e successivamente dati in affidamento e adozione.

«Alla luce dell’inchiesta giornalistica, che svela inquietanti scenari, chiediamo che venga rivisto l’intero procedimento di Anna Giulia» commenta l’avvocato dei Camparini, Francesco Miraglia, «nato da una serie di errori clamorosi ammessi da tutti, dai Servizi sociali come dal Pubblico ministero, che si era persino opposto al decreto di adottabilità, tranne che dal Tribunale dei minorenni di Bologna».

Nonostante nel corso del procedimento dinnanzi allo stesso Tribunale fosse emerso come tutti i protagonisti di questa rocambolesca vicenda (l’avvocato tutore di Anna Giulia, il procuratore dei nonni materni che avevano osteggiato il rientro della bambina presso i genitori, e i coniugi affidatari) facessero parte di un sodalizio tra operatori nell’ambito reggiano ed emiliano, la cosiddetta Combriccola del Casale.

«E’ finalmente giunto il momento che si faccia chiarezza» prosegue l’avvocato Miraglia «e che questi due genitori possano tornare a riabbracciare la loro figlia, che ormai ha quasi 14 anni». I genitori hanno presentato un esposto ai Tribunali di Milano, Reggio Emilia e Ancona, e ai Tribunali per i minorenni di Milano e Bologna, che a vario titolo sono entrati in questa vicenda.

La vicenda di Anna Giulia Camparini, che l’avvocato Miraglia ha narrato nel libro “Papà portami via da qui!”, inizia da una perquisizione a casa dei genitori avvenuta nel 2007: si cerca della droga che non viene trovata, tutto viene archiviato, ma i Servizi sociali ritengono non idonea la sistemazione della bambina (la casa viene definita indecorosa, senza che, per altro, nessuno vi abbia fatto un sopralluogo), che viene quindi portata al Centro Aiuto al Bambino (gestito dalla psicologa Donati) e dal 2010 affidata a una famiglia sconosciuta. Verrà adottata due anni fa. A niente sono valse le relazioni dei nuovi assistenti sociali e del pubblico ministero: il Tribunale dei minorenni non ha tenuto conto di nulla, se non delle dichiarazioni della psicologa Valeria Donati e del suo team. E una bambina curata e amata è stata strappata dai suoi genitori e affidata a degli estranei.

L’avvocato Francesco Miraglia e i coniugi Camparini saranno ospiti della trasmissione “Chi l’ha visto?”, che sì è occupata più volte di questa discussa vicenda, a illustrare questi nuovi sviluppi, puntata che andrà in onda il 12 giugno.

 

«Basta una telefonata per allontanare il figlio»

La denuncia del legale di una mamma il cui bimbo è affidato a un’altra famiglia «La donna non sapeva la motivazione e dopo mesi non è ancora stata sentita
È un sistema che distrugge, basta la segnalazione di uno qualsiasi, un vicino di casa, per far sì che un figlio sia staccato al genitore e quando chiedi risponde nessuno te le dà». Parole dure quelle di Francesco Miraglia, avvocato modenese che si sta occupando della triste vicenda di un minore (appena 3 anni) della nostra provincia, affidato ad un’altra famiglia ormai da cinque mesi e che al momento non può vedere alcun familiare.
I genitori sono separati, il minore in un primo momento stava con la madre e la famiglia di questa. Poi a far scoppiare il caso la telefonata del nuovo compagno ai carabinieri, secondo il quale la donna al telefono avrebbe minacciato il suicidio. «Una questione di gelosia, cose che poi l’uomo (querelato dalla madre, ndr) ha ritrattato, eppure secondo l’articolo 403 (intervento urgente della pubblica autorità per affidare un minore, ndr) il figlio è stato tolto alla madre, senza alcuna motivazione. Pensate che uno denunciato per furto viene processato per direttissima il giorno dopo, in questo caso la motivazione ci è stata data a distanza di mesi. Il Tribunale dei minori di Bologna – prosegue Miraglia – ha accolto le motivazioni dei servizi sociali basate su fatti travisati e non corrispondenti al vero, senza accertare la verità e affidando il minore ad un’altra famiglia».
Nel frattempo, i giorni (i mesi ormai) passano, l’avvocato scrive più volte al Tribunale di Bologna, motivando il fatto che il minore, data anche l’età, possa intanto stare con i nonni e la zia, quella che è sempre stata la sua famiglia, il suo mondo, i suoi affetti. Ma la situazione non cambia: «Inverosimile che un Tribunale dopo tutti questi mesi non si senta in dovere di fissare un’udienza per ascoltare la madre. Il piccolo non può tornare da lei, la psicologa ritiene che abbia una disfunzione di attaccamento verso la mamma, perché dopo gli incontri con lei, quando torna nella famiglia affidataria risponde male ai nuovi “genitori”: la psicologa lo ritiene legato al rapporto compromesso con la madre, ma non le è venuto in mente che forse è proprio il contrario? Che il piccolo soffre a doversi staccarsi dalla mamma e a tornare a casa da estranei? E sulla base di queste supposizioni pregiudizievoli e superficiali, non suffragate da alcun test, ha sospeso gli incontri tra la mia assistita e suo figlio».
E come – purtroppo – accade spesso in questi casi le persone coinvolte dall’altra parte trovano un muro di gomma: «Abbiamo chiesto udienza in Tribunale, abbiamo chiesto di cambiare psicologa, abbiamo chiesto un percorso alternativo che riavvicini madre e figlio, senza ottenere però alcuna risposta da nessuno. Ancor più grave il silenzio del direttore generale dell’Asl di Ferrara, del responsabile del servizio sociale referente, dell’assessore alle politiche sociale del Comune di residenza e di tutte le figure politiche coinvolte…», conclude l’avvocato. (d.b.)

Contesta i servizi sociali che le hanno tolto i figli, la madre non puo’ piu’ vederli

RAVENNA. Quando le relazioni sentimentali finiscono, spesso a farne le spese sono i figli, utilizzati come strumento di ricatto o di vendetta nei confronti del partner. Così è capitato a una donna di Ravenna, al termine della sua relazione con un uomo che oltre ad aver troncato con lei, ha fatto intervenire i Servizi sociali facendole togliere la custodia dei piccoli. La cattiveria più grande è che non li ha strappati alla madre con l’intento di tenerseli: pertanto i due piccoli, che tre anni fa avevano un paio d’anni appena, sono finiti in una casa famiglia e successivamente presso famiglie affidatarie.
«Non comprendiamo il motivo, però, per cui i Servizi sociali li hanno persino divisi e mandati in case differenti» racconta l’avvocato Francesco Miraglia, che si sta occupando del caso, nel tentativo di far riavere alla donna i suoi due bambini. «Come non comprendiamo l’atteggiamento vessatorio e pregiudizievole che gli stessi Servizi sociali mantengono nei confronti di questa madre, cui hanno tolto i figli immotivatamente, senza per altro predisporre un percorso di rientro in famiglia».
Da tre anni, infatti i piccoli vivono presso altre famiglie, senza che i Servizi sociali abbiano mai elaborato un percorso di sostegno alla genitorialità né è stato predisposto alcun progetto di rientro dei minori a casa con la madre.
Ma ancor più grave è stato l’episodio in cui uno dei piccini ha chiesto alla mamma quando sarebbero tornati a casa e lei, per rasserenarlo, ha risposto che sarebbe accaduto presto. Lui, poverino, l’ha raccontato alla famiglia affidataria e l’assistente sociale, con un atto gravissimo, ha convocato madre e figli, dicendo ai piccoli che la mamma mentiva e che non era certo che sarebbero mai rientrati a casa.
Mancano infine una valutazione tecnica e oggettiva dello stato psicologico della donna e dei suoi bambini e della capacità genitoriale di questa mamma: tutte cose che l’avvocato Miraglia ha chiesto ora al Tribunale dei minorenni di Bologna. Il legale ha sottoposto la vicenda anche al sindaco e all’assessore ai Servizi sociali di Ravenna.
«Oltre alle mancanze di progettualità» prosegue l’avvocato Miraglia «un giorno che la madre ha avuto uno scatto d’ira con un’assistente sociale, non solo le hanno impedito di vedere i figli (da ben sette mesi ormai), ma il piano di rientro, che pareva ormai pronto, è saltato. E quando giovedì ci siamo incontrati con gli operatori per discutere insieme della vicenda, il responsabile è sbottato con un “Non credo alla madre”.
Vista la completa mancanza di fiducia e di confronto tra gli operatori dei Servizi sociali e la mia cliente, abbiamo chiesto al sindaco di sapere su quali basi viene fondato un rapporto costruttivo tra la pubblica amministrazione e un cittadino, ancor più quando si tratta di due bambini di 4 e 5 anni allontanati dalla propria mamma da quasi tre anni. Non vorremmo che tali mancanze fossero dirette ad allungare i tempi di affidamento eterofamiliare».
RAVENNA. Quando le relazioni sentimentali finiscono, spesso a farne le spese sono i figli, utilizzati come strumento di ricatto o di vendetta nei confronti del partner. Così è capitato a una donna di Ravenna, al termine della sua relazione con un uomo che oltre ad aver troncato con lei, ha fatto intervenire i Servizi sociali facendole togliere la custodia dei piccoli. La cattiveria più grande è che non li ha strappati alla madre con l’intento di tenerseli: pertanto i due piccoli, che tre anni fa avevano un paio d’anni appena, sono finiti in una casa famiglia e successivamente presso famiglie affidatarie.
«Non comprendiamo il motivo, però, per cui i Servizi sociali li hanno persino divisi e mandati in case differenti» racconta l’avvocato Francesco Miraglia, che si sta occupando del caso, nel tentativo di far riavere alla donna i suoi due bambini. «Come non comprendiamo l’atteggiamento vessatorio e pregiudizievole che gli stessi Servizi sociali mantengono nei confronti di questa madre, cui hanno tolto i figli immotivatamente, senza per altro predisporre un percorso di rientro in famiglia».
Da tre anni, infatti i piccoli vivono presso altre famiglie, senza che i Servizi sociali abbiano mai elaborato un percorso di sostegno alla genitorialità né è stato predisposto alcun progetto di rientro dei minori a casa con la madre.
Ma ancor più grave è stato l’episodio in cui uno dei piccini ha chiesto alla mamma quando sarebbero tornati a casa e lei, per rasserenarlo, ha risposto che sarebbe accaduto presto. Lui, poverino, l’ha raccontato alla famiglia affidataria e l’assistente sociale, con un atto gravissimo, ha convocato madre e figli, dicendo ai piccoli che la mamma mentiva e che non era certo che sarebbero mai rientrati a casa.
Mancano infine una valutazione tecnica e oggettiva dello stato psicologico della donna e dei suoi bambini e della capacità genitoriale di questa mamma: tutte cose che l’avvocato Miraglia ha chiesto ora al Tribunale dei minorenni di Bologna. Il legale ha sottoposto la vicenda anche al sindaco e all’assessore ai Servizi sociali di Ravenna.
«Oltre alle mancanze di progettualità» prosegue l’avvocato Miraglia «un giorno che la madre ha avuto uno scatto d’ira con un’assistente sociale, non solo le hanno impedito di vedere i figli (da ben sette mesi ormai), ma il piano di rientro, che pareva ormai pronto, è saltato. E quando giovedì ci siamo incontrati con gli operatori per discutere insieme della vicenda, il responsabile è sbottato con un “Non credo alla madre”.
Vista la completa mancanza di fiducia e di confronto tra gli operatori dei Servizi sociali e la mia cliente, abbiamo chiesto al sindaco di sapere su quali basi viene fondato un rapporto costruttivo tra la pubblica amministrazione e un cittadino, ancor più quando si tratta di due bambini di 4 e 5 anni allontanati dalla propria mamma da quasi tre anni. Non vorremmo che tali mancanze fossero dirette ad allungare i tempi di affidamento eterofamiliare».
RAVENNA. Quando le relazioni sentimentali finiscono, spesso a farne le spese sono i figli, utilizzati come strumento di ricatto o di vendetta nei confronti del partner. Così è capitato a una donna di Ravenna, al termine della sua relazione con un uomo che oltre ad aver troncato con lei, ha fatto intervenire i Servizi sociali facendole togliere la custodia dei piccoli. La cattiveria più grande è che non li ha strappati alla madre con l’intento di tenerseli: pertanto i due piccoli, che tre anni fa avevano un paio d’anni appena, sono finiti in una casa famiglia e successivamente presso famiglie affidatarie.
«Non comprendiamo il motivo, però, per cui i Servizi sociali li hanno persino divisi e mandati in case differenti» racconta l’avvocato Francesco Miraglia, che si sta occupando del caso, nel tentativo di far riavere alla donna i suoi due bambini. «Come non comprendiamo l’atteggiamento vessatorio e pregiudizievole che gli stessi Servizi sociali mantengono nei confronti di questa madre, cui hanno tolto i figli immotivatamente, senza per altro predisporre un percorso di rientro in famiglia».
Da tre anni, infatti i piccoli vivono presso altre famiglie, senza che i Servizi sociali abbiano mai elaborato un percorso di sostegno alla genitorialità né è stato predisposto alcun progetto di rientro dei minori a casa con la madre.
Ma ancor più grave è stato l’episodio in cui uno dei piccini ha chiesto alla mamma quando sarebbero tornati a casa e lei, per rasserenarlo, ha risposto che sarebbe accaduto presto. Lui, poverino, l’ha raccontato alla famiglia affidataria e l’assistente sociale, con un atto gravissimo, ha convocato madre e figli, dicendo ai piccoli che la mamma mentiva e che non era certo che sarebbero mai rientrati a casa.
Mancano infine una valutazione tecnica e oggettiva dello stato psicologico della donna e dei suoi bambini e della capacità genitoriale di questa mamma: tutte cose che l’avvocato Miraglia ha chiesto ora al Tribunale dei minorenni di Bologna. Il legale ha sottoposto la vicenda anche al sindaco e all’assessore ai Servizi sociali di Ravenna.
«Oltre alle mancanze di progettualità» prosegue l’avvocato Miraglia «un giorno che la madre ha avuto uno scatto d’ira con un’assistente sociale, non solo le hanno impedito di vedere i figli (da ben sette mesi ormai), ma il piano di rientro, che pareva ormai pronto, è saltato. E quando giovedì ci siamo incontrati con gli operatori per discutere insieme della vicenda, il responsabile è sbottato con un “Non credo alla madre”.
Vista la completa mancanza di fiducia e di confronto tra gli operatori dei Servizi sociali e la mia cliente, abbiamo chiesto al sindaco di sapere su quali basi viene fondato un rapporto costruttivo tra la pubblica amministrazione e un cittadino, ancor più quando si tratta di due bambini di 4 e 5 anni allontanati dalla propria mamma da quasi tre anni. Non vorremmo che tali mancanze fossero dirette ad allungare i tempi di affidamento eterofamiliare».
RAVENNA. Quando le relazioni sentimentali finiscono, spesso a farne le spese sono i figli, utilizzati come strumento di ricatto o di vendetta nei confronti del partner. Così è capitato a una donna di Ravenna, al termine della sua relazione con un uomo che oltre ad aver troncato con lei, ha fatto intervenire i Servizi sociali facendole togliere la custodia dei piccoli. La cattiveria più grande è che non li ha strappati alla madre con l’intento di tenerseli: pertanto i due piccoli, che tre anni fa avevano un paio d’anni appena, sono finiti in una casa famiglia e successivamente presso famiglie affidatarie.
«Non comprendiamo il motivo, però, per cui i Servizi sociali li hanno persino divisi e mandati in case differenti» racconta l’avvocato Francesco Miraglia, che si sta occupando del caso, nel tentativo di far riavere alla donna i suoi due bambini. «Come non comprendiamo l’atteggiamento vessatorio e pregiudizievole che gli stessi Servizi sociali mantengono nei confronti di questa madre, cui hanno tolto i figli immotivatamente, senza per altro predisporre un percorso di rientro in famiglia».
Da tre anni, infatti i piccoli vivono presso altre famiglie, senza che i Servizi sociali abbiano mai elaborato un percorso di sostegno alla genitorialità né è stato predisposto alcun progetto di rientro dei minori a casa con la madre.
Ma ancor più grave è stato l’episodio in cui uno dei piccini ha chiesto alla mamma quando sarebbero tornati a casa e lei, per rasserenarlo, ha risposto che sarebbe accaduto presto. Lui, poverino, l’ha raccontato alla famiglia affidataria e l’assistente sociale, con un atto gravissimo, ha convocato madre e figli, dicendo ai piccoli che la mamma mentiva e che non era certo che sarebbero mai rientrati a casa.
Mancano infine una valutazione tecnica e oggettiva dello stato psicologico della donna e dei suoi bambini e della capacità genitoriale di questa mamma: tutte cose che l’avvocato Miraglia ha chiesto ora al Tribunale dei minorenni di Bologna. Il legale ha sottoposto la vicenda anche al sindaco e all’assessore ai Servizi sociali di Ravenna.
«Oltre alle mancanze di progettualità» prosegue l’avvocato Miraglia «un giorno che la madre ha avuto uno scatto d’ira con un’assistente sociale, non solo le hanno impedito di vedere i figli (da ben sette mesi ormai), ma il piano di rientro, che pareva ormai pronto, è saltato. E quando giovedì ci siamo incontrati con gli operatori per discutere insieme della vicenda, il responsabile è sbottato con un “Non credo alla madre”.
Vista la completa mancanza di fiducia e di confronto tra gli operatori dei Servizi sociali e la mia cliente, abbiamo chiesto al sindaco di sapere su quali basi viene fondato un rapporto costruttivo tra la pubblica amministrazione e un cittadino, ancor più quando si tratta di due bambini di 4 e 5 anni allontanati dalla propria mamma da quasi tre anni. Non vorremmo che tali mancanze fossero dirette ad allungare i tempi di affidamento eterofamiliare».
RAVENNA. Quando le relazioni sentimentali finiscono, spesso a farne le spese sono i figli, utilizzati come strumento di ricatto o di vendetta nei confronti del partner. Così è capitato a una donna di Ravenna, al termine della sua relazione con un uomo che oltre ad aver troncato con lei, ha fatto intervenire i Servizi sociali facendole togliere la custodia dei piccoli. La cattiveria più grande è che non li ha strappati alla madre con l’intento di tenerseli: pertanto i due piccoli, che tre anni fa avevano un paio d’anni appena, sono finiti in una casa famiglia e successivamente presso famiglie affidatarie.
«Non comprendiamo il motivo, però, per cui i Servizi sociali li hanno persino divisi e mandati in case differenti» racconta l’avvocato Francesco Miraglia, che si sta occupando del caso, nel tentativo di far riavere alla donna i suoi due bambini. «Come non comprendiamo l’atteggiamento vessatorio e pregiudizievole che gli stessi Servizi sociali mantengono nei confronti di questa madre, cui hanno tolto i figli immotivatamente, senza per altro predisporre un percorso di rientro in famiglia».
Da tre anni, infatti i piccoli vivono presso altre famiglie, senza che i Servizi sociali abbiano mai elaborato un percorso di sostegno alla genitorialità né è stato predisposto alcun progetto di rientro dei minori a casa con la madre.
Ma ancor più grave è stato l’episodio in cui uno dei piccini ha chiesto alla mamma quando sarebbero tornati a casa e lei, per rasserenarlo, ha risposto che sarebbe accaduto presto. Lui, poverino, l’ha raccontato alla famiglia affidataria e l’assistente sociale, con un atto gravissimo, ha convocato madre e figli, dicendo ai piccoli che la mamma mentiva e che non era certo che sarebbero mai rientrati a casa.
Mancano infine una valutazione tecnica e oggettiva dello stato psicologico della donna e dei suoi bambini e della capacità genitoriale di questa mamma: tutte cose che l’avvocato Miraglia ha chiesto ora al Tribunale dei minorenni di Bologna. Il legale ha sottoposto la vicenda anche al sindaco e all’assessore ai Servizi sociali di Ravenna.
«Oltre alle mancanze di progettualità» prosegue l’avvocato Miraglia «un giorno che la madre ha avuto uno scatto d’ira con un’assistente sociale, non solo le hanno impedito di vedere i figli (da ben sette mesi ormai), ma il piano di rientro, che pareva ormai pronto, è saltato. E quando giovedì ci siamo incontrati con gli operatori per discutere insieme della vicenda, il responsabile è sbottato con un “Non credo alla madre”.
Vista la completa mancanza di fiducia e di confronto tra gli operatori dei Servizi sociali e la mia cliente, abbiamo chiesto al sindaco di sapere su quali basi viene fondato un rapporto costruttivo tra la pubblica amministrazione e un cittadino, ancor più quando si tratta di due bambini di 4 e 5 anni allontanati dalla propria mamma da quasi tre anni. Non vorremmo che tali mancanze fossero dirette ad allungare i tempi di affidamento eterofamiliare».